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Druk (Un Altro Giro), l'ultimo lungometraggio del grande regista danese Thomas Vinterberg, ha vinto l'Oscar come miglior film straniero e la notizia mi porta a suggerirne caldamente la visione.


Il film è stato girato nel 2019, dunque prima della pandemia. Ma con registi che, come nel caso di Vinterberg, sono capaci di fornire interpretazioni del tempo presente sempre profonde e mai scontate, può succedere anche questo: che il tema filosofico veicolato dal film chiami in causa, puntualmente, quelle contraddizioni antropologico-culturali determinate dall'emergenza pandemica e che il regista non poteva considerare durante la lavorazione dell'opera.


La trama racconta di quattro insegnanti cinquantenni avvolti da un senso di spegnimento dell'energia vitale; ormai consumata, quest'ultima, dallo stanco reiterarsi di un'esistenza piatta e mediocre sul versante sia affettivo che professionale. In seguito a una bevuta occasionale, i quattro si mettono in testa di testare una teoria secondo la quale un basso ma costante stato di ubriachezza porterebbe benefici alla vita di tutti i giorni. E così, ognuno per proprio conto ma confrontandosi continuativamente sui risultati, i quattro si recano di mattina al lavoro leggermente ubriachi mantenendosi tali, anche in famiglia, fino alla sera.

Dopodiché, la parabola è apparentemente scontata: dopo i primi euforizzanti risultati, alcuni perdono il controllo sulla quantità di alcol da assumere, per altri si generano conseguenze catastrofiche nella vita sociale o famigliare e così via. Ma lo sviluppo del film reca, alla fine, una morale molto diversa da un semplice appello alla sobrietà e alla moderazione: Vinterberg ci dice, infatti, che l'ebbrezza è una componente fondamentale della vita, che essa sostanzia il piano socio-relazionale e che, dunque, l'uomo non può fare altro che coltivare, mantenere acceso, il piano dionisiaco dell'esistenza.


Ora, questo messaggio arriva proprio nel momento in cui una Nuova Normalità impone la cancellazione della relazione intercorporea, della sensualità, delle feste e delle ritualità collettive.

Questo film giunge nel momento in cui una dimensione tecnologica onnipervasiva annichilisce, in ogni essere umano, la sfera dionisiaca dell'esistenza col semplice atto di rendere illegale e proibito tutto ciò che, in qualche modo, pertiene alla percezione della vita come totalità, come infetta mescolanza, come panica ebbrezza.


Druk è un film in cui il regista ci aveva esortato, per tempo, a non lasciare che avvenisse (anche) la Morte di Dioniso. Ora che tale morte si sta materialmente svolgendo sotto i nostri occhi, quell'esortazione ha maggior valore. O meglio ha valore per chi coltiva il senso del supremo rifiuto, per chi vuole testimoniare l'irriducibilità dello spirito umano anche nel momento della sua fine.


Riccardo Paccosi

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