top of page


Ho ovviamente il massimo rispetto per i gruppi che stanno sorgendo o che da tempo sono sorti in seno all'area alternativa e che hanno scelto l'opzione partitica. Tuttavia non riesco a convincermi che quella sia una strada percorribile. Resto dell'opinione che non si possa dare una risposta novecentesca a una dinamica decisamente non novecentesca come quella che stiamo attraversando.


Provo a spiegarmi meglio. Tutti gli esperimenti volti a rappresentare nelle istituzioni istanze alternative (o presunte tali, condivisibili o meno, non entro nel merito) hanno percorso la stessa triste traiettoria. Quando il PCI venne sciolto (e io non ritengo avesse posizioni antisistema specie nella fase berlingueriana), Rifondazione Comunista ruscì a sopravvivere per un ciclo non breve fungendo apparentemente da alternativa di sinistra al duopolio centrosinistra/centrodestra. Ma di fatto si trattava essenzialmente di coprire un'area di consensi elettorali e farla fruttare in termini di riciclo di classe dirigente (ex picista o ex demoproletaria etc.). Cosa che riusciva infatti a funzionare solo all'opposizione. Credo che l'incubo peggiore dei dirigenti fosse quello di avere un risultato tale da rendere il partito determinante per gli equilibri parlamentari, perché questo avrebbe comportato scelte troppo difficili da reggere a lungo termine. Cioè l'obiettivo era essere inessenziali. Anche nel momento delle più plateali rotture, Rifondazione ha determinato al massimo la riarticolazione di improponibili maggioranze a vantaggio del fratello maggiore (e con esiti ancor più improponibili e ulteriormente involutivi). Niente di più. La prospettiva era mantenere a galla la barchetta giocando su quell'ambiguità. Poi l'esperienza è finita quando il partito è andato al governo - come volevasi dimostrare - dove l'alternativa non può essere questione di retorica da comizio elettorale. Più o meno stessa cosa - pur con tutte le differenze di premesse, potenzialità, opzioni e soprattutto dimensioni - per i Cinque Stelle. Ma pure per la Lega salviniana etc.


Cio che si muove nella nostra area è diverso, mi si dirà, e io ne sono convinto. Voglio anche ammettere che partiti alternativi oggi possano raggiungere percentuali dignitose, cosa che finora non è stata per varie ragioni, interne ed esterne. Poniamo appunto che ci si possa arrivare. Il problema resta.


La traiettoria di rifondaroli e grillini o altri comunque non è riconducibile solo all'opportunismo di classi dirigenti inadeguate. Per quanto noi si sia abituati a riconoscere nel gatekeeping soprattutto una spregevole ragione soggettiva (che certo anche io di norma ravviso), esiste pure una questione oggettiva. Esistono istituzioni strutturalmente inadeguate ad aprire vie di cambiamento, e ulteriormente mortificate da soluzioni tecniche che si vanno accavallando nella sostanziale impotenza delle istanze rappresentative. Questa è una pietra su cui temo siano destinate ad inciampare anche le coscienze più limpide e animate dai propositi più sinceri. Soprattutto se i propositi sono tutto sommato petizioni di principio prive di organici sbocchi strategici (per i quali occorrerebbero prospettive troppo ampie e condizioni geopolitiche troppo diverse rispetto a quelle attualmente disponibili: altra questione oggettiva).

Per quanto noi riconosciamo nel Parlamento un luogo ormai totalmente svuotato, non siamo ancora in grado di immaginare prospettive non tradizionali all'azione politica (ma non facciamocene una colpa, sia chiaro: essere pionieri è sempre difficilissimo). Da qui credo derivi l'illusione che le istanze rappresentative possano guadagnare un nuovo protagonismo solo che cambi la qualità delle loro maggioranze. In realtà mi pare sia più ragionevole credere il contrario: la riscossa della democrazia rappresentativa e delle sue articolazioni istituzionali, ammesso che possa essere, è pensabile come traguardo, non come punto di partenza.


E credo che sempre l'improba fatica creativa che ci si pone davanti determini fraintendimenti nel nostro modo di essere movimento. Anche qui dobbiamo uscire dalle logiche tradizionali. Cioè dalla dicotomia classica fra spontaneismo e organizzazione, che è reale ma che per decenni abbiamo vissuto come dicotomia tra movimento e partito (e appunto in questi termini mi pare ci sia la tentazione di riproporla ancora e anche nella nostra area). Quell'ottica funziona solo fino a che si concepisce il movimento come collaterale al sistema di partiti, come spinta che agisca dall'esterno sul Parlamento o che produca esperimenti votati al travaso nel contenitore istituzionale. Negli ultimi decenni anche questa è stata una modalità farsesca, risoltasi nell'inserimento in liste elettorali di qualche esponente della società civile o comunque in dinamiche di legittimazione e restyling a vantaggio di una partitocrazia sempre più scollata dalla società (vedi no global o girotondi vari).


Questa strada non è più possibile, non solo perché le istanze delle piazze non hanno obiettivamente referenti partitici - con buona pace di Siri e Borghi o della Meloni - ma anche perché è una trappola conclamata. Io credo che le ragioni della società che si esprime nelle piazze debbano avere la società come punto di arrivo, non solo di partenza. Credo che le forme organizzative debbano essere pensate per vivere e resistere fuori dai luoghi tradizionali di una politica ormai impotente. Che debbano svilupparsi come forme di solidarietà collettiva, relazione sociale, organizzativa ed economica che abbia una propria autonomia e che non miri al momento ad inserirsi in forme inattuali, ma cresca nonostante il palazzo e i suoi figuranti. Credo che la resistenza sociale, da movimento, debba diventare sistema.


Non so immaginarne le modalità, ma mi pare che non ci siano altre strade. E se si comincia a ragionarci sopra collettivamente, qualcosa di meglio di sicuro verrà fuori.


Gavino Piga (2 novembre 2021)


bottom of page