Pare che quella di ieri sia stata una sorta di giornata internazionale del pentimento. Due sono le richieste di perdono - certo per fatti diversissimi e di gravità non paragonabile - che hanno fatto capolino fra le notizie del giorno.
Anzitutto la Germania ha ammesso, alla buon'ora e dopo trattative iniziate nel 2015, ciò che tutti sanno da circa cent'anni, ossia che in Namibia - allora Deutsch-Südwestafrika - i tedeschi si macchiarono di genocidio. Non c'è che dire: in un'epoca in cui la scientificità viene invocata come la pioggia, per dire che massacrare il 50% di una comunità e il 75% dell'altra (in tutto circa 75.000 persone) significa scientificamente commettere un genocidio, c'è bisogno di un negoziato di sei anni. Dopo una grottesca farsa la cui scena ha ospitato i più fetidi stratagemmi linguistici: ancora oggi il governo tedesco trova inaccettabile l'uso del termine "riparazione" (che potrebbe aprire la strada ad altre rivendicazioni) preferendo il più poetico "guarigione delle ferite". E soprattutto dopo cent'anni di silenzio (oggi qualche coraggioso ricorda che in pochi conoscono quei fatti perché la Germania si è a lungo rifiutata di riconoscere le proprie colpe: normale, no?).
Anche i numeri devono essere negoziati, insomma. E non solo quelli della storia: specialmente, anzi, quelli del risarcimento, come a dire che non si può chiamare un crimine col suo nome se prima non si è trovato l'accordo sul prezzo. Che alla fine s'è fatto quadrare, s'apprende, nella cifra di 1,1 miliardi di euro dilazionata in trent'anni. Accordo vantaggioso anche (o soprattutto?) per i tedeschi, i quali si sono tolti il fastidio con una sorta di patteggiamento politico, sorvolando sulle richieste di risarcimento individuale da parte dei discendenti delle vittime Herero e Nama. Il miliardino verrà comodamente girato al governo namibiano in forma di sostegno a progetti di sviluppo, come è stato per i danari che da decenni Berlino fa piovere in quei paraggi assicurandosi in cambio il controllo delle materie prime e degli appalti per l'estrazione. Perché niente è per niente: è il mercato, bellezza. E anche stavolta la pratica è chiusa.
Bell'affare, per uno Stato africano in cui ancora oggi - annota su Riforma Claudio Geymonat - un 7% di tedeschi risiede in ville coloniali nel bel mezzo delle sterminate baraccopoli adibite al 90% della popolazione. E in cui il 5% della popolazione detiene il 75% delle risorse, nel quadro di un complesso mosaico etnico. I promessi progetti per lo sviluppo, dunque, da chi saranno realmente gestiti, e a favore di chi, proclami a parte? In quella che sembra una riproposizione del metodo Schramm o un'ennesima elargizione interessata da madrepatria a colonia, una cosa è certa: i rappresentanti delle comunità cui teoricamente sarebbero dovuti i risarcimenti non hanno di fatto voce in capitolo a livello governativo. Temono che i soldi verranno spartiti da altri, e protestano su un accordo fatto sopra le loro teste senza che loro - i diretti interessati - ne abbiano approvato i termini. Ma nessuno li ascolta: oggi è il giorno in cui bisogna celebrare la magnanimità della Germania verso di loro, e al limite si ha l'autorizzazione di ringraziare (chi poi volesse indagare le possibili ragioni geopolitiche di quest'immenso atto di contrizione - magari alla luce dell'analogo, e se possibile più meschino ancora, discorso di Macron ai Rwandesi - potrà leggere qui un'interessante analisi di Guido Salerno Aletta).
Passando di palo in frasca, di ben altro tenore - e assolutamente imparagonabile, ribadisco - è un più modesto mea culpa che coincidenza ha voluto riempisse anch'esso ieri le pagine dei giornali. Di Maio si è scusato. Nel suo caso il dietrofront riguarda il chiasso forcaiolo assurto a strategia per costruire consenso, soprattutto grazie a lui e al suo movimento. "Basta" ora dice "con la gogna come strumento elettorale": il richiedente perdono, insomma, decide quando si comincia e pure quando si finisce, in autonomia e - dico malevolmente - secondo convenienza.
Qui si tratterebbe di ridefinire i 5Stelle sulla sagoma di una responsabilità istituzionale tanto cara al PD (anch'esso soggetto ipergarantista che però affonda le sue radici nei lanci di monetine e nell'antiberlusconismo travagliesco). Ma in realtà si svela ciò che è realmente accaduto per anni nelle piazze pentastellate, dove un esuberante comico dava voce all'indignazione del popolo. O, meglio, indirizzava quell'indignazione verso una caciara scomposta che aveva un unico scopo: fare rumore. Perché il mea culpa di Di Maio è esattamente speculare alla colpa che lui stesso si attribuisce. Pura e semplice scenografia. Peccato che in mezzo ci fossero (e ci siano) istanze di giustizia vera, richieste di trasparenza, di democrazia e di legalità che nel binomio dimaiesco gogna-garantismo non trovano (né allora trovavano) nessuno spazio.
I due casi, per quanto incommensurabili, conducono infine a una morale analoga: diffidate dei pentimenti in politica, specie se tardivi. In genere servono - nel grande come nel piccolo - a fare in modo che nulla cambi eccetto la facciata.
Gavino Piga (29 maggio 2021)
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