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NUOVA RUBRICA: recensire le presentazioni dei libri



Inauguro questa rubrica recensendo la presentazione del nuovo libro dello storico Peppino Ortoleva, Sulla viltà. Perché lo faccio? Perché tutti sanno che il 90% dell’impatto di un’opera culturale oggi, e forse non solo oggi, sta nello spin della sua presentazione. Dopo, se c’avrò voglia, oltre alla presentazione del libro recensirò anche il libro.


Allora, il titolo sembra una figata, finalmente qualcuno riesuma una categoria morale desueta e quasi tabù, specie dopo il sessantotto (la femminista americana Susan Sontag dice che il coraggio è una qualità moralmente neutra). Finalmente un ritorno dell’ethos e dell’epos maschile in quest’epoca di “mascolinità tossica” e obliterazione del padre. Ancora negli anni Cinquanta le figurine del “Vittorioso” erano piene di massime del tipo “Meglio subìre un torto che dire una bugia, chi mente è vile”. La formazione del carattere, di una struttura personologica che non dipenda da mode, influenze, influencer e psicofarmaci era il principale e quasi unico obiettivo dell’educazione, e lo spauracchio dell’essere considerati vili era il principale token comportamentale che spingeva a non esserlo.

Bene, bravo Ortoleva! E invece no. Lo spin della presentazione del libro inizia così: “Così una definizione di viltà un po’ più sostanziale di quella che abitualmente si trova sui dizionari è resa difficile proprio dal fatto che la viltà appare come un venir meno ai principi o ai valori condivisi, è un sottrarsi agli impegni assunti” (Gianluca Solla su Doppiozero).


Sembra niente niente, invece è addirittura una ridefinizione orwelliana della parola viltà. Aristotele la definisce in sostanza come una valutazione sbagliata sull’entità del pericolo, alla quale segue un comportamento conseguente. Qui al posto di Aristotele c’è Kant, il solito funereo Kant del dovere che si sostituisce alla vita: viltà sarebbe un venir meno a un impegno. Non un errore di conoscenza, un errore sostanziale, ma un vulnus giuridico. Impegno verso chi, poi? I princìpi sono quelli condivisi, e sappiamo tutti cosa vuol dire condivisi nell’era dei media imperanti: vuol dire appunto mediatici.


Insomma, secondo questa ridefinizione orwelliana, il contrario di viltà non è coraggio, ma fedeltà: adesione ai valori condivisi anche contro il proprio interesse, in perfetta linea kantiana. Fedeltà alle ideologie contro gli istinti, alla mente contro il corpo. E’ l’epos triste e funereo che la vicenda Covid ci ha insegnato: guerra al virus, che si combatte stando a casa, mascherandosi la faccia, facendosi iniettare roba. L’epos della soia (che sta a quello vero come il latte di soia sta al latte, o le bistecche di soia alle bistecche).


Ogni giorno sentiamo il generale Figliuolo usare metafore belliche: stanare il virus, battaglia contro il virus, ultimo assalto. E’ il Cadorna della soia che imbraccia una siringa invece del moschetto 91. E la viltà non è più quella del codardo che fugge davanti al cannone, ma quella di chi fugge davanti alla siringa. Anche questa è una ridefinizione orwelliana. E lo conferma lo strilloncino del più importante evento di presentazione del libro, quello organizzato da Liberilibri e dal Politecnico di Torino per oggi 4 giugno, con la partecipazione dell’autore e di Juan Carlos de Martin, Sergio Pace e Carlo Serra. Che strilla lo strilloncino? Che il vile “spesso si nasconde dietro a quei valori che sembrerebbero opposti, come il militarismo totalitario e l’esaltato nazionalismo”. Un luogo comune del secondo Novecento, questo, secondo il quale il nazionalismo sarebbe l’ultimo rifugio delle canaglie. Ma siccome dell’epos non si può fare a meno, ce ne verrà fornito uno nuovo, di plastica, adatto a chi si sente eroe perché imbraccia una siringa.



Gianluigi Sassu (4 giugno 2021)


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