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Il Buon Governo del Consiglio dei Nove



Una piccola perla nello “scrigno” d’Italia, ignorata da molti, e da tanti altri forse dimenticata. Porta la firma di Ambrogio Lorenzetti e riempie la Sala del Consiglio dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena: l’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo. Un manifesto dell’esercizio del potere politico ed, insieme, un monito per chi prova a cimentarvisi.


Il Buon Governo si avvale della Giustizia, ispirata dalla Sapienza e dall’ausilio della Concordia, e del Bene Comune, su cui aleggiano, quali forze ispiratrici, Fede, Speranza e Carità (virtù Teologali), e con garanti Fortezza, Prudenza, Giustizia e Temperanza (virtù Cardinali). Pace e Magnanimità ne sono il suggello. L’ispirazione dottrinale di impronta aristotelica e i richiami a Tommaso D’Aquino sono marcatamente evidenti.

Gli effetti di tale impostazione sono mirabilmente rappresentati nella felicità, prosperità, fermento culturale ed artistico, dell’esistenza di una città, dentro e fuori le mura, dove la Sicurezza, conseguenza naturale della Pace e dell’Armonia che scaturiscono dallo status di Buon Governo, aleggia benignamente.


Ben differenti gli effetti del Cattivo Governo, in cui il potere è in mano alla Tirannide, su cui aleggiano, ad inspirandum, Avarizia, Superbia e Vanagloria (vizi capitali), con garanti Crudeltà, Tradimento, Frode, Furore, Divisione e Guerra. La Giustizia è vilipesa e umiliata. I desolanti effetti del Cattivo Governo sono visibili dentro e fuori le mura della città, dove alla Sicurezza si è sostituito il Timore. Ovunque aleggiano distruzione, devastazione e abbandono.


Il Consiglio dei Nove resse la città di Siena dal 1287 al 1355, dopo un lungo periodo di conflitti tra guelfi e ghibellini. La decorazione della Sala del Consiglio fu voluta dai medesimi, per mostrare quali siano i valori fondanti del buon governo e i vantaggi che ne derivano e, di contro, gli effetti della tirannia. Il Consiglio dei Nove, durante il proprio governo, garantì a Siena un notevole sviluppo economico, culturale ed artistico.


Il monito di quegli affreschi è dirompente, la sua attualità disarmante. Sembra quasi di intravedere, dietro il manto delle sagome e dei colori, l’agitarsi scomposto degli animi degli attuali detentori esteriori del potere politico in Occidente. E lo stesso monito sembra unirsi a quello delle parole del Machiavelli (da Il Principe): altri «poteri» li hanno resi «principi»«per potere, sotto la loro ombra, sfogare il loro appetito», e i nuovi «principi» non possono né comandare né maneggiare questi «poteri», i quali non saranno mai soddisfatti.


Non solo gli esteriori detentori devono temere di essere abbandonati da essi, ma, soprattutto, che vengano loro contro. Chi li ha messi lì ha per nemici tutti quelli che sono stati offesi da tale «usurpazione», ma al

tempo stesso non può considerare «amici» quelli che tale usurpazione hanno permesso, perché non potrà soddisfarli mai integralmente nelle loro pretese, né potrà esercitare contro di loro rimedi forti, essendogli in qualche modo «obbligato» per i favori resi. E, tuttavia, non può permettersi di dipendere dalla volontà e fortuna di chi gli ha consentito il passaggio, essendo, queste due cose, troppo volubili e instabili.


Sono destinati a perire, divorati dal Tiranno cui hanno aperto il varco e al cui cospetto e devastazione si sono prostrati.


Perché questo è l’operare del Tiranno. Potevate far sì - ricordando Petrarca - che la Virtù prendesse l’armi contro il furore, e il combatter sarebbe stato corto, che l’antiquo valore nelli italici cor non è ancor morto.


Paola Musu

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