Ritorniamo sui Commentari sulla società dello spettacolo di Guy Debord per riportarne alcuni passi, secondo noi, particolarmente illuminanti, fecondi per un dibattito sul nostro tempo.
III. Adesso che nessuno può ragionevolmente dubitare dell’esistenza e della potenza dello spettacolo, possiamo in compenso dubitare che sia ragionevole aggiungere qualcosa su una questione che l’esperienza ha liquidato in modo tantodrastico. «Le Monde» del 19 settembre 1987 illustrava efficacemente la formula «di ciò che esiste, non c’è più bisogno di parlare», vera legge fondamentale di questi tempi spettacolari che, almeno a questo riguardo, non hanno lasciato indietro nessun paese: «Che la società contemporanea sia una società dello spettacolo, è un fatto assodato. Presto si noteranno solo quelli che non si fanno notare. Non si contano più le opere che descrivono un fenomeno che sta caratterizzando tutte le nazioni industriali, senza risparmiare i paesi in ritardo rispetto al loro tempo. Il buffo, però, è che i libri che analizzano, generalmente per deplorarlo, questo fenomeno, devono a loro volta adeguarsi allo spettacolo per farsi conoscere». In effetti questa critica spettacolare dello spettacolo, tardiva e che per di più vorrebbe «farsi conoscere» sullo stesso terreno, si limiterà necessariamente a vane generalizzazioni o a ipocriti rimpianti; come sembra vana anche la saggezza disillusa che sproloquia su un giornale.
La vuota discussione sullo spettacolo, ossia su ciò che fanno i proprietari del mondo, è così organizzata da esso stesso: si insiste sui grandi mezzi dello spettacolo per non dire niente del loro grande uso. Spesso si preferisce chiamarlo, invece che spettacolo, «il mediale». E con questo termine si intende designare un semplice strumento, una sorta di servizio pubblico che gestirebbe con imparziale «professionismo» la nuova ricchezza della comunicazione di tutti attraverso i mass media, comunicazione finalmente giunta alla purezza unilaterale, in cui la decisione già presa si lascia tranquillamente ammirare. Ciò che è comunicato sono degli ordini; e, in modo molto armonioso, coloro che li hanno dati sono anche quelli chediranno ciò che ne pensano.
Il potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario, centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno una politica-spettacolo,una giustizia-spettacolo, una medicina-spettacolo o tanti altri«eccessi mediali» così sorprendenti. Dunque lo spettacolo non sarebbe altro che l’eccesso del mediale, la cui natura, indiscutibilmente buona dato che serve a comunicare, è talvolta portata all’eccesso. Con una certa frequenza, i padroni della società affermano di essere serviti male dai loro dipendenti mediali; più spesso rimproverano alla plebe degli spettatori la tendenza ad abbandonarsi senza ritegno, in modo quasi bestiale, ai piaceri dei mass media. In questo modo si nasconderà, dietro una moltitudine virtualmente infinita di presunte divergenze mediali, quello che è al contrario il risultato di una convergenza spettacolare voluta con notevole tenacia. Come la logica della merce prevale sulle diverse ambizioni concorrenziali di tutti i commercianti, o come lalogica della guerra domina sempre le frequenti trasformazioni degli armamenti, così la logica severa dello spettacolo comanda ovunque l’estrema varietà degli eccessi mediali.
Il cambiamento più importante, in tutto ciò che è successo negli ultimi vent’anni, sta nella continuità stessa nello spettacolo. Tale importanza non dipende dal perfezionamento della sua strumentazione mediale, che già in precedenza aveva raggiunto uno stadio di sviluppo molto avanzato: il fatto essenziale è semplicemente che il dominio spettacolare abbia potuto allevare una generazione sottomessa alle sue leggi. Le condizioni straordinariamente nuove in cui tale generazione, nel suo complesso, ha effettivamente vissuto, costituiscono un riassunto preciso e sufficiente di tutto ciò che ormai lo spettacolo impedisce; e anche di tutto ciò che permette.
[...] Quando la società che si dichiara democratica è giunta allo stadio dello spettacolare integrato, pare essere riconosciuta ovunque come la realizzazione di una perfezione fragile. Di modo che, essendo fragile, non deve più essere esposta ad attacchi; del resto non è più attaccabile, perché perfetta come nessun’altra mai. È una società fragile perché stenta molto a controllare la sua pericolosa espansione tecnologica. Ma è una società perfetta da governare; prova ne è che tutti quelli che aspirano a governare vogliono governare proprio quella, con gli stessi metodi, e mantenerla quasi esattamente com’è. È la prima volta nell’Europa contemporanea che nessun partito o frammento di partito tenta più anche solo di affermare che cercherà di cambiare qualcosa di importante. La merce non può più essere criticata da nessuno: né in quanto sistema generale, né come una determinata paccottiglia che ai dirigenti d’azienda è convenuto mettere momentaneamente sul mercato.
Guy Debord (1988)
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