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Camilla e il meta-giornalismo dei talk show



L'altro ieri (10 giugno) la trasmissione serale condotta da Barbara Palombelli ha ospitato uno spettacolo non nuovo ma non perciò meno triste. Apparentemente, tutto "normale". Argomento dello spezzone: l'epica impresa collettiva della campagna vaccinale, ormai seguita minuto per minuto. Gli ospiti, come usuale, erano all'altezza non dell'argomento da trattare ma del chiacchiericcio da bar che ordinariamente lo avvolge. Posto d'onore per il solito Bassetti, peraltro da qualche ora disinvoltamente No-Astrazeneca (perché «la scienza deve tenere conto dell'opinione pubblica»: quindi da oggi solo gli ultradecantati vaccini mRNA) da buon ermeneuta di un sapere infallibile che però riforma la liturgia con la frequenza con cui cambiamo i calzini. In seconda battuta, Paolo Nucci, oftalmologo (che si dichiarava preventivamente non specialista della materia ma cionondimeno proferiva sentenze con certezza granitica) e Alessandro Sallusti, le cui competenze scientifiche sono note.

Nulla di sconvolgente, se non fosse stato per l'imprevisto che si abbatte ogni tanto sulla callosa grammatica del conformismo televisivo. In questo caso, la tragica morte di Camilla Canepa, la povera ragazza ligure deceduta in seguito al vaccino. Un evento doloroso, su cui purtroppo, come sempre accade di fronte al lutto, non c'è parola che sia adeguata.

Impossibilitati a pensare alcunché fuori dalle intuizioni pure dello spazio-tempo televisivo, i severi esperti potevano interrogarsi solo su eventuali "errori di comunicazione" per i quali un vaccino non adeguato a una fascia d'età potesse essere stato somministrato a una marea di soggetti di quella fascia d'età. E anche qui nulla di strano: non si tratta del "cosa" vien detto, bensì del "come", perché altrimenti toccherebbe mettere in discussione troppi dogmi, dal mistero glorioso della Scienza alle litanie dei suoi profeti. Solo che proprio qui, in questi frangenti, viene in luce la maglia rotta nella rete. Scoperto il nervo della sua ipocrisia, la grande narrazione a reti unificate comincia a deragliare.

Ecco dunque (al min. 32, se si vuol verificare) la conduttrice, con uno sgomentante candore, rivolgersi al buon Sallusti per chiedergli dove loro (i giornalisti) abbiano sbagliato. Ce l'hanno messa tutta - sottolinea - per favorire questa benedetta campagna «non creando allarmismi» (mentre altre volte i numeri sparati a gettito continuo senza cornici statistiche erano normali): si sono sforzati di trovare le notizie positive, andandole a cercare dove si poteva trovarle (ma altrettanto, possiamo aggiungere noi, si sono sforzati di ignorare quelle negative). E ora? Come dovrebbero comportarsi? Con la gravità di un giudice di Forum nell'atto di battere il martelletto, il grande esperto risponde che la storia della giovane vittima doveva comunque essere raccontata. Senza porsi il problema di quanto surreale fosse la domanda che gli era stata posta e quanto poco resistente, ormai, la pezza con cui lui cercava di coprire il buco. Di quanto surreale fosse, insomma, la necessità di ribadire che una notizia dovrebbe essere data a prescindere dalle (presunte) opportunità. Proprio nel regno dei "professionisti dell'informazione".

Per carità, anche questo è uno scarabocchio che imbratta pagine tutt'altro che vergini. Il campo è quello su cui - per fare un esempio - Fubini ha tempo addietro depositato le sue confessioni sugli "omissis" circa la Grecia (per i possibili danni alla narrazione europeista). E la logica è quella in virtù della quale il silenzio avvolge Assange, colpevole di non essersi mai posto problemi come quello offerto alla saggezza di Sallusti. Personalmente, anzi, presto attenzione a questo genere d'imbarazzi da diversi anni. Almeno dai famigerati fatti di quel capodanno tedesco che vide, presso la stazione di Colonia e non solo, un incredibile numero di molestie sessiste ad opera di immigrati. Ricorderete la canea che si scatenò per rendere la notizia più adeguata a quelli che oggi chiameremmo standard della community. Una guerra preventiva contro eventuali reazioni razziste (ma soprattutto contro il rischio che s'intavolasse un dibattito vero su immigrazione e integrazione) nella quale si cercava di tacciare da disinformatore chiunque riportasse i fatti senza omissioni (sul sito di qualche debunker si dibatteva se fosse giornalisticamente corretto parlare di molestie proponendo sottili distinzioni che avrebbero scatenato le ire delle femministe, se anch'esse non fossero state in gran parte impegnate nell'operazione di cosmesi politically correct).

La differenza ora è che non si sente più neppure il bisogno di arrampicarsi sui vetri, di cercare uno straccio argomentativo con cui lucidare i fatti, per quanto logoro. Il gioco è ormai scoperto, e le epifanie del Buon Pastore catodico sono "new normal". Il processo overtoniano è stato guidato con estrema abilità: solo in pochissimi si rendono conto di come siamo passati dall'etica del giornalismo al giornalismo dell'etica. I più pensano che le due espressioni abbiano il medesimo significato, e invece sono esattamente l'una l'opposto dell'altra. Non per caso, proprio mentre il paternalismo dei media diventa carattere dichiarato, impazza una lotta alla "disinformazione" che ha l'obiettivo di attestare la neutralità dei media, così come l'ostracismo dei dissidenti consoliderebbe un'altrettanto illusoria neutralità della scienza, e la sepoltura delle piazze "zerovirgoliste" la neutralità di una politica da tempo scaduta ad attività burocratico-amministrativa.

Tutto neutro, in questo nuovo mondo, proprio quando nulla è mai stato meno neutro. E la generazione di quel Sessantotto che cantava come non esistano poteri buoni, discute in diretta di come gestire il potere (ciò che oggi, ad ogni latitudine, viene ribattezzato "responsabilità") sotto l'egida di una ragione morale. Di una religione, che come tutte le altre può alla bisogna diventare "instrumentum regni". Di questo discutevano l'altra sera i nostri beniamini televisivi: di come amministrare un potere. Di come gestire un pubblico (questo è il nuovo nome di quelli che un tempo erano "cittadini"). Per il loro bene, è ovvio: quale regime ha mai detto il contrario?

Gavino Piga (13 giugno 2021)

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