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La politica non è più la politica



Non abbiamo più una classe politica da tempo, ma sappiamo che questa affermazione, presa in sé e ripetuta con il rimpianto che caratterizza il dibattito attuale, finisce col confondere causa ed effetto.


Prendiamo per buono il presupposto, ossia che la qualità dei nostri politici sia andata degradando irreversibilmente (anche se poi è da chiarire in cosa consistessero esattamente le qualità che rimpiangiamo, se cioè fossero tecniche, intellettuali morali etc.). La verità è comunque che non abbiamo più politici perché non c'è più la politica: potessero tornare indietro i grandi personaggi che sovente evochiamo (o anche i meno grandi, le cui ombre giganteggiano in proporzione all'avanzare del tramonto), non cambierebbe molto. Ogni talento, per dispiegarsi, ha bisogno del luogo in cui farlo, e quel luogo oggi non c'è. Peraltro non c'è anche per responsabilità da ascriversi ai politici del passato.


Ma dire che non c'è più la politica non è ancora abbastanza. Più precisamente direi che la politica non è più la politica. Cioè userei quella forma diaforica che costringe a calibrare le parole e ad esplorarne i significati. Qual è il quid che agisce per sottrazione in una frase del genere? Quale il patrimonio connotativo che separa il campo entro cui agisce la ripetizione del termine? Quindi, quale il senso che riconosciamo a quella politica che oggi non è più?


Certamente non alludiamo a caratteri puramente formali (perché in quel caso dovremmo riconoscere che ancora esistono, con differenze esteriormente marginali). E se invece ne facessimo una questione sostanziale, dovremmo ammettere che ciascuno di noi - a prescindere dalle convergenze attuali - potrebbe riempire quella parola con sensi fra loro anche molto distanti. Il che - sia chiaro - non è affatto un male. Anzi, è l'esercizio che ci consente di costruire progetti concreti. Ma bisogna cominciare a farlo. Ad esplicitarsi, con sé stessi anzitutto, e poi con chi si trova, per scelta o per caso, dalla nostra parte della barricata.


La mia impressione è che finora ci si sia troppo spesso arresi a facili scappatoie. Da una parte abbiamo cercato necessari compromessi in una certa genericità: la politica è l'istanza che limita i poteri economico-finanziari, è il campo che presiede al bene comune, è la rappresentanza di una collettività eterogenea di contro all'élite, il pubblico di contro al privato, il dialogo di contro alla forza. Cosi facendo, tuttavia, rischiamo alla lunga di far coincidere un passato troppo rimpianto con opzioni più ideali che storiche, e di attestarci su una linea utopistica non proprio feconda. Il cui corollario rischia di essere - ed ecco la seconda scorciatoia - la rivalutazione generale di esperienze la cui complessità e contraddittorietà si appiattisce in periodizzazioni falsanti (ad esempio, chi ha veramente tracciato il confine storiografico fra le due repubbliche, e perché?).


Alcuni arriverebbero anche alla conclusione che la politica (per come si scoprirebbero ad intenderla) non è mai realmente stata. E sia, purché si chiariscano i significati. Purché, cioè, si esca dall'astratto e si comprenda se e come nella parola "politica" noi si sia in grado di riconoscere processi determinati del passato (o determinabili nel futuro). E quali.


Perché mi pare che si stenti a farlo? Forse perché siamo ancora troppo abituati a intendere la sottile arte della distinctio come strumento non di chiarimento ma di divisione. E spesso, infatti, mi pare che i fronti di lotta attualmente in costruzione siano vissuti come temporanei ripieghi mentre si aspetta che torni una sorta di normalità (intesa appunto come ripristino di una politica astrattamente intesa e attesa) nella quale tornare a dividersi. Magari secondo schemi consueti, a loro volta troppo spesso rimpianti. Così ci asteniamo dall'identificarci dentro storie precise per poterle meglio preservare, e per poterci in esse identificare in maniera nostalgica e acritica.


Credo sia un errore. Abituiamoci all'antanaclasi - cara a tutta una generazione, che è poi quella dei nostri padri culturali, quali che siano - e all'esplorazione della parola. Abituiamoci, cioè, a sentire risuonare le nostre parole nella bocca altrui e con il significato altrui. Insomma, salpiamo per davvero nel mare di un progetto che non può essere solo tattico. E costruiamo discorsi veri e veramente tesi al futuro. La politica non è un messia asceso al cielo e che dal cielo tornerà per l'agognata palingenesi. Se non costruiamo noi, oggi, un campo di significati e una collettività che lo sostenga, resteremo intrappolati nel teatro che vediamo. Prima che il come, viene ineluttabilmente il cosa costruire.


Gavino Piga (13 settembre 2021)

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