Ieri, come ogni giorno, la televisione era popolata dai soliti opinionisti (oggi è tutto un pullulare di opinioni) che blateravano le solite banalità sui soliti argomenti. Qualcuno - fosse un politico, un giornalista, un virologo o presunto tale non fa differenza - diceva che sulla pandemia (ma avrebbe potuto metterci l'economia o qualunque altra cosa) "bisogna costruire una giusta narrativa".
Niente di sbalorditivo. Vent'anni fa, da giovane militante di provincia, partecipai a un tavolo cittadino in cui i maggiorenti del centrosinistra locale commentavano la sequenza di governi Prodi-D'Alema-Amato, appena rasa al suolo dal trionfo berlusconiano. E tutti erano d'accordo nel dire che il centrosinistra aveva governato bene ma "forse non aveva saputo comunicare i risultati ottenuti". Quello era il mantra già allora. Un fatto di "narrativa". Un modo elegante per non dire che l'elettorato non capiva nulla: magari (sì, lo concedevano, come si fa per circostanza) non si erano spiegati bene. Il tutto, mentre si strepitava contro il conflitto d'interessi albergante ad Arcore, col rantolo rancoroso di chi ha bene in mente qual è il campo di battaglia ma sa che il nemico ha un arsenale più fornito.
Perché quel mantra non era solo il sudario in cui avvolgere la sconfitta. Era, già allora, un preciso modo di fare politica, e neppure nuovo. I dirigentini in questione - appendici borghigiane della grande macchina-Partito, sopravvissuta alle sue ragioni - erano ancora quelli de "L'Unità non lo dice". I soliti che quando il popolo non è d'accordo col Partito, meglio cambiare il popolo. Ché il governare è una linea generosamente orientata dall'alto al basso. Gente che aveva preteso per una vita di rappresentare fabbriche e periferie purché rientrassero nelle colonne dell'ennesima Pravda, impaginata sulla grammatica dell'ortodossia del momento. I burocratini della fedeltà alla linea, fuori dalla quale non c'è salvezza. Solo che - di fronte ai più scoppiettanti copioni di un pubblicitario di professione e imbonitore provetto - avevano scoperto tutta la tetra callosità del loro repertorio. E avrebbero impiegato i vent'anni successivi nel vano tentativo di aggiornare la "narrativa".
A nulla sarebbe valsa la retorica seriosa della competenza politicante, buttata lì per riciclare i volti meno compromessi del tempo andato: Berlusconi continuava a seppellirli al ritmo di qualche barzelletta, forte della stravaganza demenziale con cui solleticava il bisogno d'identificazione della massa. Né poterono più che tanto il profilo cinematografico di Rutelli, la ricostruzione pacioccosa del Prodi targato Eco-Costanzo, il giovanilismo fuori tempo massimo di Veltroni il "kennediano", o il paternalismo fatto in casa di Bersani. Finché un Renzi qualunque capì che - siccome non ce la facevano, neanche col nemico ormai fuorigioco - c'era lo spazio per una bella spallata e così, lui che poteva una retorica più rampante, strappò direttamente le vecchie pagine, ormai illeggibili per le troppe cancellature, e spazzò via ogni residuo di politburo a suon di pop. Mentre i media fabbricavano letteralmente il nuovo leader della destra e Grillo traduceva in politica le forme d'intrattenimento che andava sperimentando da anni nei teatri.
Sarà paradossale riassumere in questo modo il pluridecennale avvicendamento di una classe dirigente, e si prenda la provocazione per quel che vale. Ma, gratta gratta, la verità è che la politica è una questione di grafica. Son decenni che chi la racconta meglio vince, e non può essere diversamente. Perché la politica è una merce come le altre, è un oggetto di consumo, un feticcio, uno spettacolo. Incartato dentro un'epica lotta fra "buontà angeliche e malvaggità grandiose" come diceva l'anonimo manzoniano con quella retorica che ne intrideva il gusto barocco (oggi, diremmo, oscillante fra kitch e trash). E poi ovviamente quell'estetica manichea serviva perlopiù a trasformare in gesta cavalleresche le villanie di un signorotto di paese. O qualche povero innocente in diabolico untore.
Ecco, Manzoni. Forse non si perdonò mai del tutto d'essere stato un narratore, cioè di aver partorito una storia mista di verità e finzione. Perché nel suo immaginario di cattolico il narratore era pur sempre l'avvelenatore pubblico che i grandi moralisti avevano crudamente censurato. E perché sapeva che la narrazione è un crinale scivoloso dove verità e menzogna devono giocoforza confondersi. Che il verosimile è un arnese da usare con cautela. Conosceva il brivido tracotante della pagina bianca, dell'universo ancora vuoto che solo Dio ha potuto vedere. Tant'è che nel suo romanzo non racconta d'altro che della capacità umana di rovesciare la realtà con le parole: di un mondo che si racconta e, raccontandosi, si capovolge. Dove si dice diritto e s'intende forza. Dove la ragione non vale quanto il torto di "non saper parlare". In quel mondo, politico è ancora perfetto sinonimo di impostore. Narratore, appunto.
Oggi poi il discorso si complica. Il "va' dove ti porta il cuore" dell'etica consumistica si trasferisce anche alla parola, che rivendica il suo diritto a fare ciò che desidera. E diventa fascista chi lega i vocaboli ai loro legittimi significati, in un mondo in cui le regole (apparentemente) non devono esistere. La flessibilità, la fluidità, il sedicente capriccio dei mercati, che sono la nuova griglia, si applicano anche al discorso. Che - prendendo esempio dalla finanza - non soffre più di essere legato alla realtà. Non sopporta un referente vincolante. Il che legittima la babele della chiacchiera infinita, sul cui caotico vorticare domina chi ha i megafoni più potenti. La morale però è sempre quella: a noi vili e meccanici resta il compito di applaudire la Storia dei Prencipi e Potentati. Al limite ciascuno pensi a vivere tranquillo finché può, finché l'abuso non gli busserà alla porta: solo allora scoprirà di essere impotente di fronte a chi ha l'autorità di narrare lui e la sua storia secondo il proprio arbitrio.
Sì, perché la parola in libertà non è libertà di parola. Tutto il contrario: staccato dall'Essere - come avrebbero detto gli antichi filosofi - il discorso che non ha più l'obbligo di essere vero, deve solo riuscire ad essere all'inizio il più persuasivo, poi semplicemente il più forte (perché riuscire a trionfare coprendo ogni altra voce è più facile: più economico). I novelli narratori che ci governano lo sanno. Perciò infittiscono il loro narrare. E noi, anziché strappare il loro cielo di carta, crediamo perfino che tutto ciò possa chiamarsi scienza, competenza, forse addirittura democrazia. Ancora non abbiamo imparato a diffidare di chi vuol fare delle nostre esistenze la propria narrativa. Per assegnarci i ruoli che preferisce e decidere chi siamo, cosa vogliamo, con la libertà deicida di ogni narratore, che della sua pagina è padrone.
Gavino Piga [30 aprile 2021]
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