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Tragedia e speranza. L'economia secondo Quigley/2



“Ricordiamoci chi siamo, di quale scintilla siamo capaci, per la quale molti ci invidiano e altrettanti, se non di più, ci temono…” (Paola Musu)


[segue dalla prima parte]


Lo scoppio della guerra, il 4 agosto 1914, colse il sistema bancario britannico in situazione di insolvenza: i suoi fondi, creati dal sistema bancario con finalità di profitto e prestati al sistema economico per consentire ad esso di operare (denaro creato dal nulla), non potevano essere coperti dal volume esistente di riserve auree o da collaterali che potessero essere liquidati rapidamente. Di conseguenza, i banchieri avevano escogitato uno schema attraverso il quale le loro obbligazioni dovevano essere pagate attraverso moneta fiat (stampa di moneta da parte del Tesoro). Terminata la crisi, però, essi insistettero perché il governo finanziasse la guerra senza ricorso alla moneta fiat (ossia alla stampa di moneta, da sempre condannata dai banchieri come immorale), bensì attraverso la tassazione e i prestiti contratti dai banchieri ad alti tassi di interesse.


La decisione di usare la stampa di moneta per colmare le passività dei banchieri fu adottata sin dal sabato 25 luglio 1914 da Sir John Bradbury (poi Lord Bradbury) e Sir Frederick Atterbury, proprio in casa di quest’ultimo. Le prime banconote del Tesoro furono emesse alla Waterlow and Sons il successivo martedì 28 luglio, nel momento in cui la maggior parte dei politici credeva che la Gran Bretagna sarebbe rimasta fuori dal conflitto. La consueta festività bancaria all’inizio di agosto fu estesa per tre giorni, durante i quali fu annunciato che per i pagamenti bancari sarebbero state utilizzate banconote del Tesoro in luogo dell’oro. Il tasso di sconto fu portato dalla Banca d’Inghilterra dal 3 al 10 per cento per prevenire l’inflazione, una cifra presa semplicemente perché la regola tradizionale della banca stabiliva che con un tasso bancario del 10 per cento l’oro "si sarebbe tirato fuori da terra da solo", e i pagamenti in oro dovevano essere sospesi solo qualora un tasso del 10 per cento avesse fallito.


Allo scoppio della guerra la maggior parte dei paesi belligeranti sospesero i pagamenti in oro e, a vari gradi, accettarono il consiglio dei loro banchieri secondo cui la corretta via per finanziare la guerra fosse attraverso una combinazione di prestiti bancari e tassazione dei consumi. La guerra, tuttavia, durò più del periodo di tempo stimato dagli esperti (i quali avevano ritenuto che sarebbe ad un certo punto cessata per esaurimento delle limitate risorse finanziarie), ed il combattimento durò più vigorosamente che mai. I governi pagarono allora in vari modi: attraverso la tassazione, con moneta fiat, contraendo prestiti con le banche (che crearono credito a tale scopo) e contraendo prestiti verso la popolazione attraverso l’emissione di titoli di debito (bond) (nota: non siamo ufficialmente in guerra ma succede ancora…).


Ognuno di questi metodi di raccolta fondi ha un differente impatto:

a) la tassazione non genera né inflazione né debito, ma può avere un severo impatto deflazionistico sui prezzi e recessivo sulla produzione;

b) la moneta fiat genera inflazione ma non debito;

c) il credito bancario genera inflazione e debito;

d) la vendita di titoli di stato (bond) non genera inflazione ma genera debito.

La commistione di questi quattro strumenti, dettata, però, dall’opportunità e da false teorie, fece sì che alla fine della prima guerra mondiale tutti i paesi si trovassero con livelli di debiti pubblici ed inflazione tali da non essere giustificabili in base al grado di mobilitazione economica che era stato raggiunto.

Lo stesso New Deal rooseveltiano, per il modo in cui fu gestito, beneficiò in primo luogo i banchieri e si tradusse, poi, nel punto chiave effettivo del capitalismo monopolistico o di un’economia pluralista gestita (fondata su lobbies finanziarie e tecnocrati): la ragione di ciò sta nel fatto che il presidente Roosevelt aveva un approccio fondamentalmente ortodosso circa la natura della moneta. Era, sì, favorevole ad un bilancio in deficit e a spendere in situazione di depressione economica in conformità ad un approccio non ortodosso (aveva infatti afferrato l’idea che la mancanza di potere d’acquisto era la causa della mancanza di domanda, che lasciava invenduti i beni, e della disoccupazione). Ma aveva idee piuttosto ortodosse sulla natura della moneta.


Come risultato di ciò, la sua amministrazione curò i sintomi piuttosto che le cause della depressione e, mentre spendeva secondo un modello non ortodosso per curare questi sintomi, lo fece con moneta presa in prestito dalle banche, conformemente al modello comunemente accettato. Il New Deal consentì ai banchieri di creare moneta (attraverso il credito), la prese in prestito dalle banche e la spese. Tale spesa, vincolata al credito delle banche, oltre ad appesantire il debito, non poté essere sviluppata in modo tale da assicurare un drastico reimpiego delle risorse inattive.


Eppure, durante i dodici anni in cui fu alla Casa Bianca, Roosevelt ebbe il potere statutario di emettere moneta fiat (stampare moneta) sotto forma di biglietti stampati dal governo, senza ricorso al prestito bancario. Questa autorità non fu da lui mai utilizzata. Egli infatti, come il suo Segretario del Tesoro, riteneva che non vi fosse nulla di strutturalmente sbagliato nell’economia, che essa fosse solo temporaneamente in stallo e che avrebbe continuato a procedere con le proprie forze una volta riavviata. A tal fine sarebbe stata sufficiente una quantità di spesa relativamente moderata, da parte del governo, su base temporanea.


L’inadeguatezza di questa teoria si palesò nel 1937, quando il New Deal, dopo quattro anni e le elezioni vittoriose del 1936, interruppe il programma di spesa. Anziché decollare, l’economia collassò nella recessione più ripida della storia. L’amministrazione USA fu salvata da quest'impasse attraverso il programma di riarmo seguito a causa della seconda guerra mondiale. Successivamente, dal 1947, furono la Guerra Fredda ed il programma spaziale a consentire il perpetuarsi delle medesime condizioni, così che, anche allora, la prosperità non fu il risultato di un’appropriata organizzazione del sistema economico, ma, piuttosto, delle spese di governo. Ogni drastica riduzione di tali spese avrebbe dato corso ad un’acuta depressione.

Le stesse soluzioni impiegate per sopperire alle spese belliche furono utilizzate come metodi di risoluzione delle situazioni di gap deflazionistico.


Accade, infatti, che tutti i beni e servizi prodotti non possono essere venduti fintanto che i risparmi vengono tenuti da parte. Affinchè tutti i beni e servizi prodotti possano essere venduti è necessario che i risparmi vengano reimmessi sul mercato come potere d’acquisto. Il modo usuale attraverso cui ciò avviene è dato dagli investimenti. Quando i risparmi vengono investiti, sono spesi nella comunità e si traducono in potere d’acquisto. Ora, lo squilibrio tra potere d’acquisto e prezzi, creato dall’atto del risparmio, viene completamente risistemato dall’atto dell’investimento, onde tutti i beni possono essere venduti ai prezzi richiesti. Ma ogni volta che gli investimenti sono inferiori ai risparmi, l’ammontare del potere d’acquisto disponibile non è adeguato alla quantità di beni offerta. Questo margine, determinato dalla scarsezza di potere d’acquisto causato da un eccesso di risparmi rispetto agli investimenti, viene chiamato “gap deflazionistico”.


Tale gap può essere colmato o riducendo l’offerta di beni al livello del potere d’acquisto disponibile, o accrescendo il potere d’acquisto ad un livello tale da poter assorbire l’offerta esistente di beni, o anche attraverso una combinazione di entrambe. Tuttavia, la prima soluzione determinerà una stabilizzazione dell’economia ad un più basso livello di attività economica; la seconda soluzione, invece, condurrà la stessa ad un livello più elevato.


Lasciato a se stesso, il sistema economico, alle moderne condizioni, adotterebbe il primo procedimento, con le conseguenze sull’attività economica che abbiamo indicato (ribasso). Succederebbe grossomodo questo: l’esistenza di un gap deflazionario (ossia potere d’acquisto disponibile inferiore al livello aggregato dei prezzi dei beni e servizi a disposizione) si tradurrà in una caduta dei prezzi, declino dell’attività economica, crescita della disoccupazione. Tutto ciò si traduce in un crollo del reddito nazionale, che porta, a catena, ad un declino persino più rapido del volume dei risparmi. Questa contrazione continua fino a che il volume dei risparmi raggiunge il livello degli investimenti (dunque se gli investimenti sono pari a zero, o prossimi allo zero, tale sarà il livello dei risparmi): a questo punto la contrazione si arresta e l’economia si stabilizza ad un basso livello.


Si consideri, inoltre, che man mano che la depressione economica diviene più profonda, il livello degli investimenti crolla più rapidamente del livello dei risparmi. A queste condizioni non vi è dubbio che le masse sarebbero indotte alla rivolta prima che “gli automatismi dei fattori economici” siano in grado di stabilizzare l’economia. Senza considerare poi che questa stabilizzazione, se anche raggiunta, lo sarebbe ad un livello talmente basso che una parte considerevole della popolazione si troverebbe in condizioni di necessità assoluta. Per questo motivo, in ogni paese industrializzato, i governi hanno sempre preso misure per arrestare il corso della depressione economica, onde arrestarla prima che i loro cittadini fossero trascinati nella disperazione.


I metodi utilizzati per affrontare la depressione economica e interrompere un gap deflazionistico possono essere ridotti a due tipi fondamentali: a) quelli che determinano una distruzione dei beni; b) quelli volti alla produzione di beni che non entrano nel mercato.


La distruzione di beni interromperà il gap deflazionistico riducendo la quantità di beni invenduti attraverso la contrazione dell’offerta di beni al livello del potere d’acquisto disponibile. Questo metodo è quello principalmente impiegato in condizioni di normalità del ciclo economico, attraverso il semplice espediente della contrazione della produzione dei beni che il sistema sarebbe in grado di produrre. Un sistema concretamente e spesso utilizzato (es. negli anni ’30) è stato per esempio quello della rinuncia al raccolto dei prodotti agricoli, perché il prezzo dei beni era troppo basso per consentire di coprire anche solo le spese del raccolto stesso, rendendo antieconomica l’operazione stessa, con la conseguenza della distruzione di interi raccolti [si provi a fare un’analogia con le politiche agricole comunitarie applicate negli anni e i correlati fondi elargiti a pastori e agricoltori...].


Il secondo metodo utilizzato per colmare un gap deflazionistico, ossia produrre beni che non entrano nel mercato, si traduce nel far affluire potere d’acquisto nel mercato attraverso i costi di produzione di questi beni. I costi si trasformano, appunto, in potere d’acquisto, senza che però i beni stessi incidano sull’offerta, in quanto essi non ne formano oggetto sul mercato [tipico esempio: gli armamenti o i beni strumentali; ma si potrebbero richiamare i fondi comunitari impiegati o destinati a produzioni di fatto senza mercato]. Il meccanismo, esemplificando, è il seguente: i salari percepiti dai lavoratori impiegati per la produzione rappresentano costi della produzione stessa che, una volta corrisposti, incrementano il potere d’acquisto sul mercato.


Normalmente tale risultato viene ottenuto attraverso nuovi investimenti. E tuttavia, è tipica delle condizioni di depressione economica la riluttanza crescente ad investire. Ed è oltretutto improbabile che il potere d’acquisto necessario per riguadagnare condizioni di prosperità sia fornito da un flusso costante di investimenti privati. Pertanto, è chiaro che i fondi per produrre beni che non entrano nel mercato devono essere reperiti nell’ambito di un programma di spesa pubblica. Ma ogni programma di spesa pubblica porta con sé inflazione e debito pubblico. Tali prefigurati “problemi” in realtà sono pienamente gestibili con l’uso di moneta fiat emessa al di fuori dai limiti imposti da sistemi assimilabili al gold standard (il quale consisterebbe in stampa limitata all’esistenza di riserve d’oro, valuta o altri collaterali) all’interno di metodi “compensativi” di politica economica. In quest'ambito, infatti, spesa pubblica e politiche fiscali sono coordinate in modo tale da controbilanciare le “derive” del ciclo economico, con livelli bassi di tassazione ed alti di spesa nelle fasi di deflazione, e con più alti livelli di tassazione e più bassi di spesa in fase di boom economico.


Tuttavia, secondo l'approccio oggi dominante, queste importanti leve di intervento (il c.d. “potere della borsa”), ossia il potere di tassare e di spendere, dovrebbero essere tenute fuori dal controllo della politica, per essere invece affidate agli automatismi del ciclo economico come interpretati da burocrati esperti e non rappresentativi. In realtà, tutti i programmi di spesa in disavanzo sono in serio pericolo in un paese con un sistema bancario privato. In un sistema siffatto, la creazione di moneta (o il credito) è di solito riservato agli istituti bancari privati e viene deprecato il fatto che possa risultare da un'azione governativa.


L’idea secondo cui la creazione di fondi da parte del governo è un fatto negativo, mentre la creazione di fondi da parte delle banche è salutare, è proprio di un sistema fondato sul laissez faire tradizionale. E dove, oltretutto, gli usuali mezzi di comunicazione (come giornali e radio) sono sotto il controllo privato, se non addirittura delle banche. Del resto, aumentare la spesa per distruggere beni o per contrarre la produzione, come sotto il primo programma agricolo del New Deal, non può ad esempio essere giustificato facilmente in un paese democratico in cui vige un’effettiva libertà dei mezzi di comunicazione, dato che ovviamente simili condotte portano ad un declino del reddito nazionale e degli standard di vita.

Volendo a questo punto chiudere questi brevi, e non esaustivi, spunti di analisi tratti dall'opera di Quigley, è il caso di evidenziare da ultimo una sua cruciale riflessione.


L’enorme e sorprendente sviluppo tecnologico e scientifico ha ampliato infinitamente l’abilità dell’uomo di creare e fare cose, senza che egli si sia mai chiarito che cosa valeva la pena fare. Sono stati completamente persi di vista i fini, o semplicemente ridotti al livello più primordiale e primitivo: il semplice ottenimento di maggiore potere e maggiore ricchezza. Ma la costante acquisizione di sempre maggiore potere e ricchezza è come una droga, il cui bisogno aumenta al crescere del suo consumo senza che il suo utilizzatore sia mai soddisfatto. E lascia insoddisfatta la natura dell’uomo per il semplice fatto che essa è ben più elevata ed “altra” che il semplice e solo potere o ricchezza.


Nei momenti chiave (di questo processo di deriva), i metodi di propaganda di massa attuati attraverso gli strumenti di comunicazione, e la determinazione degli interessi costituiti nell’espandere il proprio potere ed il proprio profitto anche a costo della distruzione della società stessa, hanno fornito il motivo, mentre la condizione di depressione economica mondiale ha procurato l’occasione. Il materiale umano (masse di uomini frustrati), i metodi (mezzi di comunicazione di massa), lo strumento (organizzazione politica psicopatica), e l’occasione (la depressione) sono stati tutti a disposizione già nel 1931.


Dal passato della Civiltà Occidentale - come risultato della fusione dei contributi della cultura classica, semitica, cristiana e medievale - era emerso un sistema di valori e di modi di vivere che ha ricevuto assai scarso rispetto a partire dal XIX° secolo, nonostante le fondamenta stesse di quel secolo (la sua scienza, il suo umanitarismo, il suo liberalismo e la sua fede nella dignità e libertà umana) provenissero proprio da quel vecchio sistema di valori e di modi di vivere. Il Rinascimento e la Riforma ne avevano respinto la parte medievale, e il diciottesimo secolo aveva rigettato il valore della tradizione sociale e della disciplina sociale. Il diciannovesimo secolo, ripudiando la parte classica e cristiana di quel sistema, diede il colpo finale alla concezione gerarchica delle esigenze umane. Il ventesimo secolo, infine, ha semplicemente raccolto dove quegli altri avevano seminato.


Abbandonate le sue tradizioni e radici, e mantenuta la sua sola tecnica (ma, aggiungerei, tecnologia), la Civiltà Occidentale, sin dalla metà del ventesimo secolo, ha raggiunto un punto in cui la domanda principale è: “essa può sopravvivere?”.


Paola Musu

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