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I Pentagon Papers 50 anni dopo: a chi sono serviti?



Sono trascorsi cinquant'anni dalla pubblicazione dei Pentagon Papers. Correva il 13 giugno 1971 quando il New York Times cominciò a pubblicare estratti dalle settemila pagine di History of U.S. Decision-Making Process on Vietnam Policy, rapporto segreto sulla guerra in Vietnam che Daniel Ellsberg, ex funzionario della Difesa, aveva passato clandestinamente al giornalista Neil Sheehan. Ne emergeva - sbattuto in prima pagina - lo scioccante intreccio di inganni, imperizia e propaganda che aveva precipitato la superpotenza occidentale nel più grave incubo della sua storia recente. L'allora presidente Nixon provò a bloccare la pubblicazione dei documenti invocando ragioni di sicurezza nazionale, ma il braccio di ferro si concluse con la storica sentenza della Corte Suprema che a maggioranza (sei contro tre), in nome del Primo Emedamento, sancì il diritto del Times e del Washington Post di pubblicare i materiali giunti in loro possesso. «Il potere del governo di censurare la stampa - scrisse nel suo parere il giudice Hugo Black - venne abolito in modo che la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo». Ma ogni battaglia deve essere valutata dentro la guerra in cui si combatte, e il principio di libertà sancito allora stava dentro un campo di tensioni che - a dispetto della retorica - rendeva quella libertà altamente condizionata.


A Nixon fu subito chiaro su quale terreno si stava giocando. Nell'America post-kennediana e ormai compiutamente "mediacratica" (già al 1962 risaliva la pubblicazione del saggio di Boorstin sugli "pseudoeventi"), era in atto una guerra senza eroi per la gestione dell'opinione pubblica, in cui i media - ossia i loro proprietari - rivendicavano un'autonoma posizione di forza. Se fino ad allora erano stati passivamente dentro il gioco delle "fughe di notizie" orchestrate ad arte dal governo, ora provavano ad impadronirsi del giocattolo dimostrando di poterlo usare anche senza permesso e per fini propri. Ad esempio per indebolire un presidente sgradito (pessimo ma fatto fuori qualche anno dopo con un caso giornalistico gonfiato) o per profittare - come sarebbe accaduto con Carter - di amministrazioni più disponibili. Il risultato fu quello che la giornalista investigativa Dana Priest, forse involontariamente, mette a fuoco in un lungo articolo di qualche anno fa: «La decisione di pubblicare i Pentagon Papers ha fatto inclinare l'equilibrio di potere tra governo e media dalla parte dei media. La decisione di pubblicare spetta ai proprietari e agli editori dei media americani». Il che è rassicurante solo per chi ancora crede che i media siano in mano a disinteressati amanti della verità.


Non per caso oggi sono proprio i principali media americani a voler ridimensionare la portata di quella vittoria (mentre infatti aprono al dibattito sulla revisione del Primo Emendamento). Sempre la Priest cita ad esempio Marcus Brauchli, ex direttore del Washington Post e direttore generale del Wall Street Journal, secondo cui dopo la sentenza sui Pentagon Papers «i media hanno una maggiore responsabilità nel ponderare ciò che pubblicano e nel dare al governo la possibilità di fare le proprie obiezioni». Grossomodo ciò che diceva Warren Burger, uno dei tre giudici che nel 1971 avrebbero voluto impedire la pubblicazione dei Papers. Ma in fondo non c'è da stupirsi. Quella che chiamano "responsabilità" - condividendo il clima da guerra permanente che è l'habitus ordinario di Washington - in concreto è questo: giunti in possesso di informazioni riservate non "concordate", i giornali consultano esponenti dell'establishment governativo per verificare che le informazioni non arrechino danno alla sicurezza nazionale. Cioè - fuor di metafora - per contrattarne la pubblicazione. A seconda dei casi e degli esiti, decidono se allinearsi o meno alle richieste.


Ne vengono fuori situazioni come quella che racconta ancora la Priest (credendola un esempio di giornalismo coraggioso ma responsabile): «Una mattina» - scrive - «mentre indagavo per l'inchiesta del 2005 sulle prigioni segrete della CIA all'estero, ricevetti una telefonata nella mia stanza d'albergo a Varsavia da un funzionario della CIA. Come sapesse che ero in Polonia, non saprei. La voce dall'altra parte mi disse che le mie domande stavano sconvolgendo alti funzionari dell'intelligence e militari del governo polacco. "Smettila di indagare e vieni nel quartier generale della CIA" mi fu detto. Risposi che ci sarei andata dopo aver finito (devo ammettere che l'Hulk dalla mascella grande che mi accompagnava in giro, dopo quella telefonata, diventò molto più inquietante). Al ritorno, io e i miei redattori fummo invitati a una serie di incontri presenziati dal direttore della CIA e dal direttore dell'intelligence nazionale. Sapevano che avevo scoperto un'operazione molto delicata: le prigioni della CIA in tutto il mondo, dove i presunti terroristi potevano essere interrogati liberamente e persino torturati all'insaputa del pubblico e senza che i prigionieri avessero le convenzionali protezioni legali. La Casa Bianca cercò di dissuaderci dal pubblicare il tutto. Come nel caso dei Pentagon Papers, questi funzionari offrivano solo le ragioni più generiche, senza dettagli: "gli alleati non collaboreranno più con gli Stati Uniti" o "i terroristi potrebbero vendicarsi e mettere in pericolo le forze statunitensi". L'ultimo incontro si tenne alla Casa Bianca tra il presidente Bush, la sua squadra di sicurezza nazionale, e l'editore del Post. Si limitarono a ripetere le richieste e le ragioni già esposte per far morire completamente l'inchiesta. Il direttore, Leonard Downie, insisté per avere spiegazioni specifiche, ma non ebbe nulla se non l'invito verso la porta. Mentre se ne andavano, il direttore della National Intelligence John Negroponte, l'unico diplomatico di carriera nella stanza, mise il braccio sulle spalle di Downie e, secondo il ricordo di quest'ultimo, gli disse: "Non nominerai davvero i paesi [sede di prigioni segrete n.d.t.], vero?" - "Questo è ciò che ti preoccupa di più?" Negroponte ripeté la stessa affermazione. Dopo un altro giorno di discussioni, Downie ci fece rimuovere i nomi dei paesi, ma accettò la mia controproposta di includere l'espressione "Europa orientale". Queste due parole bastarono per avviare una serie di indagini governative e giornalistiche in Europa che si sarebbero concluse diversi anni dopo con la verità: Polonia, Lituania e Romania avevano creato prigioni segrete della CIA».


Neanche a dirlo, la scoperta non comportò attacchi terroristici né defezioni da parte degli "alleati", forse perché il punto non era (né era mai stato) quello. In realtà - sotto lo strato pseudopatriottico - queste scene raccontano come i media siano diventati soggetti politici nella stessa misura in cui la politica è diventata fatto mediatico. Perché infatti - se non in nome della ragion di Stato - un giornale dovrebbe porsi il problema di divulgare i crimini commessi dal proprio governo, autosottoponendosi a una censura preventiva dopo la sentenza del 1971? O davvero i maggiori editori statunitensi credono che la guerra al terrorismo sia la soap-opera che propinano ai loro lettori?

Del resto il Washington Post è il giornale che, nel 2003, relegò fra le pagine interne i cronisti critici sulla guerra all'Iraq, come lamentato da questi ultimi e tardivamente ammesso proprio da Leonard Downie: «Le voci che sollevavano domande sulla guerra erano solitarie e non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla minoranza» avrebbe detto qualche tempo dopo, fingendo di non sapere che la marginalizzazione mediatica è un ottimo sistema per far sì che le voci solitarie restino tali. Frattanto il suo giornale (ma in buona compagnia) nel periodo più caldo dell'attacco aveva pubblicato 27 editoriali e circa 140 pezzi in prima pagina a favore dell'invasione. Sulla base di materiale gentilmente offerto dall'intelligence e che poi - riletto a posteriori, cioè a giochi fatti - avrebbe suscitato perplessità perfino nella stessa testata. Fu un errore o, pure quello, un eroico atto di "responsabilità"?


«Allo stesso modo il New York Times ha consultato il governo prima di pubblicare materiale riservato fornitogli da WikiLeaks» disse Brauchli in un colloquio accademico del 2010. E a quanti gli obiettavano che così i media mainstream sarebbero diventati «i cani da compagnia del governo» rispondeva che l'obiezione era senza senso: «La certezza che controlliamo il nostro destino, che abbiamo la libertà di pubblicare ciò che vogliamo, che siamo veramente indipendenti, ci dà la sicurezza per tenere conto di tutti gli aspetti, di tutte le variabili e di tutte le possibili ricadute, compreso il punto di vista invariabilmente cauto del governo, prima della pubblicazione. Proprio perciò il nostro giornalismo spesso è migliore ed è sicuramente più informato».


Anche a voler tralasciare casi di pressioni denunciate dai giornalisti (si veda qui giusto per restare alla guerra in Iraq), Brauchli sa che la libertà d'informazione - cioè il diritto del cittadino a sapere - non coincide necessariamente con la libertà di un editore di decidere cosa (se, come e quando) pubblicare. E mentre magnifica l'indipendenza della stampa sa anche che - date le contromisure governative in particolare da Bush in poi - i giornalisti indipendenti, specie nel settore investigativo, hanno vita durissima, per non dire delle loro fonti. Ma questo non è un problema, anzi: qualche possibile fastidio in meno per quell'intreccio che - proprio nello storico processo del 1971 - Max Frankel definì «ciclo continuo di contatti professionali e sociali e scambi di informazioni cooperativi e competitivi» fra governo e media. Un gioco in cui l'unica cosa che non si può più toccare è la libertà degli editori di stare al tavolo da poker dei potenti, e di starci avendo carte in mano. Con l'aggravante dell'11 settembre 2001, che ha creato per tutti i potentati in gioco nuovi livelli di controllo reciproco.


Del resto cinquant'anni dopo - mentre Snowden, novello Ellsberg, è in esilio e il Washington Post di Bezos chiede che gli venga rifiutata la grazia - chi ha qualcosa da celebrare non è il cittadino. Soprattutto, si capisce il fronte compatto contro Assange: se Snowden sta ancora in una dinamica consolidata (quella del whistleblower che passa documenti classificati alla stampa), il fondatore di Wikileaks entra a gamba tesa proprio nel sistema concertativo che gestisce la notizia, liquidando in un colpo solo governo e media. C'è da stupirsi che la Priest definisca quest'incauto che non usa consultare la CIA un global-trotter provocateur (per giunta odioso)? O che un'eletta schiera di suoi colleghi gli abbia riservato un campionario di apprezzamenti che va dall'accusa di «vandalismo» a quella di aver messo in piedi un'«impresa criminale»? Per non dire di testate come il New York Times o il Guardian, che continuano a prosperare sugli scoop dovuti a Wikileaks (e provvidenzialmente usati in un'America ormai stanca di nuovi Vietnam) mentre dipingono il suo ideatore come un lestofante della specie peggiore. Tutte prese di posizione leggibili attraverso la filigrana mirabilmente spianata da James Comey, direttore dell'FBI, il quale, senza giri di parole, definisce «legittimi» solo i media che, ottenute «informazioni sensibili trapelate, di solito si mettono in contatto con funzionari governativi per ascoltare le loro obiezioni» perché «cercano di educare il pubblico», al contrario di chi «fa uscire semplicemente informazioni su fonti e metodi senza riguardo agli interessi» (quella che lui definisce «intelligence porn»).


"Responsabilità" è insomma la parola chiave. Sempre. Quando serve per potersi sedere a tavola millantando di voler condizionare il menù (come nella migliore tradizione dei governi di salvezza nazionale). E quando serve a imbavagliare chi osa dire ciò che si è deciso di non poter dire, secondo la pretestuosa logica per cui la verità dev'essere taciuta in nome delle sue presunte conseguenze (in particolare se queste possono rovinare i piani delle oligarchie al potere: altro stratagemma che conosciamo bene). Qui sta dunque la trincea dei professionisti dell'informazione d'oltreoceano, dove oggi la pubblicazione dei Pentagon Papers viene ricordata con la più raffinata retorica? In fondo, nessuna meraviglia.


Gavino Piga

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