È sbagliato lasciare la critica dell'Unione Europea alla destra, ed è stato un errore inoculare nella nostra cultura politica il germe del lealismo patriottico europeo: all'eurocrazia finanziaria si può e si deve disobbedire. Lo sostiene Raffaele D'Agata, storico di primo livello e militante comunista, con un curriculum che, a volerlo riportare per intero, occuperebbe molte pagine. Già docente di storia contemporanea a Urbino e Sassari, è stato redattore della storica Rivista Trimestrale - quella di Franco Rodano e Claudio Napoleoni - e poi editorialista per Paese Sera e autore di molti volumi. Basterà ricordare La nemesi dei prestadenaro: economia mondiale e guerra fredda (Rubbettino, 2001); Idee, potere e società. Dalla presa della Bastiglia alla caduta del muro di Berlino (Rubbettino, 2003); La restaurazione imperfetta: un ventennio di precarietà globale 1990-2010 (Manifestolibri, 2011). Per non citarne che alcuni.
«La lotta contro il regime di Bruxelles - si legge in un suo recente articolo - può guadagnare in credibilità ed efficacia se, piuttosto che lasciarsi irretire nel suo aspetto cartaceo, rappresentato dai Trattati, si svilupperà in un disegno e in un’iniziativa politica che semplicemente non li riconosca e li ignori (salvo eventualmente fruire delle rare ma importanti implicazioni vantaggiose per le persone che di fatto e collateralmente essi comportano in determinate situazioni). Ciò significa propugnare e possibilmente attuare una politica di effettiva disubbidienza che si rafforzi nel suo svolgersi, conquistando consenso e sottraendone altrettanto ad operazioni ideologiche regressive. Guardare insomma ai Trattati europei come a semplici pezzi di carta è ciò che può permettere di fronteggiarli come semplici tigri di carta». Da qui è cominciata una bella conversazione.
Professore, partiamo da lontano. L'agiografia corrente esalta Spinelli, di cui è da poco passato l'anniversario della nascita, e racconta grossomodo l'Unione Europea come il sogno di un pugno d'idealisti al confino. Il mito dei “padri fondatori” è diventato anzi, oramai, una sorta di alibi antidialettico ogni qualvolta l’Unione Europea mostra di essere qualcosa di diverso da una terra promessa. Ma certamente tanti e complessi erano gli interessi che, all'indomani della seconda guerra mondiale, rendevano l'integrazione europea un orizzonte concretamente praticabile. E non sempre improntati a puro idealismo.
Cominciamo col dire che il Manifesto di Ventotene è stato abbastanza mitizzato. Conteneva senza dubbio punti condivisibili e avanzati, ma testimoniava già quello che di fatto era il principale limite della prospettiva europeista, cioè una sostanziale indeterminatezza proprio riguardo a ciò che si dovesse intendere per Europa. Se posso fare una comparazione, mi viene in mente l'idea di Germania nel dibattito ottocentesco: la soluzione del Reich (una delle possibili opzioni, poi storicamente affermatasi) deve le sue intrinseche contraddizioni al fatto che la Germania - come entità culturale e ideale - era praticamente impossibile da circoscrivere su una carta geografica. Altrettanto, se non di più, l'Europa: possiamo davvero dire, ad esempio, che San Pietroburgo non sia Europa? Del resto le frontiere europee, lungo la storia, sono state sempre pensate in una chiave di continua rimodulazione, ora tenendo fuori San Pietroburgo e dentro Costantinopoli, ora il contrario, e via dicendo. Da qualunque parte si guardi il problema di una possibile definizione europea e di una sua traduzione politica, si dovrà ammettere che l'Europa - per ciò che aspira a significare e per la mole di cose importantissime che rappresenta - non è circoscrivibile entro quei termini che chiamiamo confini. Quale che sia la scelta che si opera, se ne ricava al limite un'approssimazione cartografica. E questo mi pare anzitutto il punto: ogni entità territorialmente indeterminabile è di per sé inquietante.
Dunque il Manifesto di Ventotene era pura utopia?
Paradossalmente, la sfortuna di quel manifesto fu proprio l'aver incrociato una fase storica in cui una certa prospettiva era davvero perseguibile, ma non nel senso che i suoi estensori sapevano cogliere. Le nazioni europee avevano dominato il mondo e lo avevano incendiato, insieme con sé stesse. Ormai era tempo di cessare, innanzitutto, di dominarlo. E di limitarsi. Di limitare la loro sovranità, sì. Ma questa limitazione non si prospettava realmente come semplice prodotto di loro atti di volontà: si prospettava invece anche (in modo determinante) come prodotto di forze reali all'opera sul piano mondiale. Nell'estate del 1944 due conferenze interalleate, rispettivamente a Dumbarton Oaks e a Bretton Woods, disegnavano i fondamenti politici ed economici di un nuovo ordine mondiale. Nella prima, mediante il principio dell'unanimità delle massime potenze (dietro le forme, sostanzialmente Usa e Urss innanzitutto) era sancita e consolidata una nuova costellazione di rapporti di forza a livello globale, estremamente semplificata. Non uguali diritti delle nazioni, certo. Piuttosto, uguali diritti delle persone innanzitutto alla pace: per una via molto concreta e severa, certo, ma è in modo concreto e severo che la storia va avanti (quando lo fa, e si lascia che lo faccia). Uguali diritti delle persone alla pace, dunque, ma non soltanto: anche uguali diritti delle persone al lavoro degno, e alla vita degna che ne derivi. E qui, appunto, arriviamo a Bretton Woods. Quando si parla di Bretton Woods si dimentica spesso che i relativi accordi seguirono una falsariga tracciata da un membro dell'amministrazione Roosevelt, di nome Harry Dexter White, che aveva fama di cripto-comunista (tanto da essere destinato a passare guai durante la caccia alle streghe dei primi anni Cinquanta); così come non si dice quasi mai che l'Unione Sovietica diede un contributo decisivo alla sua affermazione, essendo anche sollecitata a darlo onde vincere resistenze britanniche. Dietro quegli accordi c'era l'idea di una nuova funzione del denaro in tutte le sue forme, e di un suo nuovo rapporto con la politica. Il denaro non era più concepito come una merce prodotta e fornita privatamente, mantenuta scarsa a garanzia del suo pregio, ossia a favore dei ricchi (nonché di Stati in cerca di potenza e alleati di questi come fornitori di protezione). Diventava invece, in prospettiva, una funzione pubblica organizzata pubblicamente in un quadro di cooperazione internazionale. E che in prospettiva si trattasse di questo, i ricchi lo capirono immediatamente molto bene, specialmente nei loro santuari come Wall Street e la City di Londra. Reagirono infatti con estrema decisione: il principale risultato della loro reazione fu per l'appunto la rottura della Grande Alleanza, e lo scatenamento della guerra fredda.
Ecco. Ma non fu poi proprio nel quadro della guerra fredda che l'utopia spinelliana ebbe occasione di trovare qualche parziale attuazione, e accettò anche di trovarla?
Uno dei più autorevoli storici dell'integrazione europea, cioè Alan S. Milward, mostrò chiaramente come il processo di questa fu avviato realmente da ceti dirigenti nazionali che videro in esso il solo modo di affermare specifici interessi nazionali nelle nuove condizioni. Non mi dilungo su questo. Osservo soltanto che, mentre in parte lo fecero per compiacere il grande protettore d'oltre Oceano, lo fecero anche in uno sforzo mirante a condizionarlo. E, specificamente, a condizionarlo al fine di tenere viva la guerra fredda e di prevenire qualunque ripresa del dialogo americano-sovietico degli anni tra il 1943 e il 1945, che era veramente, per tutti gli anni Cinquanta e un po' oltre, un incubo per loro. Lo si vide nel 1956 in occasione della crisi di Suez, quando Adenauer visitò Parigi e "consolò" l'ira di Mollet (con qualche compiacimento, forse) pronunciando parole di fuoco contro gli americani che avevano fermato (sostanzialmente, in accordo con Mosca) l'invasione anglo-francese dell'Egitto.
Fu sempre così?
No. Ci fu comunque una parentesi felice in questo processo, troppo presto stroncata. Possiamo collocarla fra il 1969 e il 1974, e porta la firma di Willy Brandt, primo socialdemocratico alla guida della Repubblica Federale di Germania. La sua Ostpolitik poneva il rilancio dell'integrazione europea come asse strategico reale: per il superamento della guerra fredda e per una strategia internazionale di pace. Nella fase precedente lo spazio europeo aveva creduto di poter trarre maggiori vantaggi dalla contrapposizione fra i blocchi, e aveva teso a mantenerla se non a farla inasprire, ma dopo la crisi caraibica dei primi anni Sessanta il quadro comincia a cambiare: il concreto profilarsi di una catastrofe nucleare pone il problema della distensione, anche come nodo europeo. Chiama in causa, cioè, gli Stati europei come possibili assi di mediazione, e con ciò li sollecita a ripensarsi anche in termini di sintonia strategica interna. Del resto gli USA, durante la lunga escalation in Vietnam, lasciano intendere la necessità che il vecchio continente cominci a pensare anche - e sempre di più - da sé alla propria difesa, il che a sua volta ripropone il problema di una relativa autonomia europea. S'ingenerano una serie di opzioni: quella ad esempio accarezzata da de Gaulle, che puntava su un rafforzamento degli Stati nazionali (fra i quali includeva anche la Russia), o appunto quella che il socialdemocratico Brandt tenta faticosamente di attuare, pur con una vasta schiera di nemici interni ed esterni. La sua idea era quella di un'Europa non più strutturalmente antisovietica, ma che al contempo potesse declinare la propria autonomia non in termini antiamericani: le due principali superpotenze, insomma, avrebbero dovuto continuare ad assumersi le loro responsabilità politiche negli equilibri internazionali, e in un tale contesto un blocco europeo avrebbe potuto guadagnarsi quel ruolo di ponte fra Est e Ovest che altri avevano pensato potesse toccare alla sola Germania. Anche perché il problema del destino della Germania restava aperto, e sebbene fosse ovviamente al vaglio di Brandt - che nel 1972 portava a casa il Trattato Fondamentale - non prometteva realisticamente un punto più avanzato di accordo, né in Europa né in relazione agli USA. Insomma, questa fu veramente l'occasione di pensare lo spazio europeo come blocco politico dotato di senso.
E a un certo punto il progetto europeo conquista anche il Partito Comunista Italiano - il più grande dell'Occidente - e il suo segretario Enrico Berlinguer. Togliatti era stato invece molto critico rispetto a quel processo d'integrazione...
Ma l'europeismo di Berlinguer si collocava proprio dentro questa prospettiva: superare le forme ormai incancrenite del mondo postbellico, e innescare un progresso reale nelle relazioni internazionali. Certamente il movimento operaio occidentale - come il movimento operaio tutto - scontava su questo terreno un certo ritardo culturale, che lo portava ad attestarsi su parole d'ordine solo fraseologicamente rivoluzionarie ma non calate nel mondo reale e nelle sue effettive e concrete esigenze rivoluzionarie. La tragedia del PCI, cominciata perciò già allora, fu che gran parte del suo ceto dirigente finì per intendere i conti con il mondo reale solo nel senso dell'adattamento. Non così certamente Berlinguer (né pochi altri con lui): e questo fu il suo dramma personale (cioè la sua solitudine e la sua grandezza). Tornando a Brandt, egli scommise fortemente (certo) sul dialogo con il PCI, proprio perché lo vedeva come un'organizzazione di massa che aveva saputo tenersi interna sia alla sinistra europea sia al campo comunista mondiale, e che - anche in virtù di questo - poteva realizzare importanti sintonie con la SPD. Vede, ciò che m'infastidisce in quello che starei per chiamare sinistrume attuale (senza alcuna gioia, naturalmente) è il continuo richiamo a Berlinguer come icona di un europeismo che nulla ha a che vedere con ciò che realmente Berlinguer pensava e voleva.
La vera prospettiva europea, quindi, poteva nascere non in continuità ma solo ben oltre (se non addirittura ed esplicitamente contro) Spinelli. Basti pensare a ciò che Spinelli sosteneva durante la controversia sugli "euromissili". Alla fine, però, in qualche misura è stata la sua prospettiva a realizzarsi: l'implosione dell'URSS è stata la ragione dell'accelerazione definitiva.
Per comprendere l'implosione dell'URSS dobbiamo ovviamente risalire quantomeno alla perestrojka, cioè al tentativo sovietico di uscire dal duro isolazionismo che aveva lungamente preservato nel bene e nel male la sua diversità (brevemente quasi interrotto tra il 1944 e il 1945): tentativo prima o poi necessario, ma effettuato allora con un cartastrofico errore di tempi. Non voglio dire che - se proposta per tempo - quella via avrebbe senz'altro funzionato. Si pensi solo a come fu accolta l'offerta sovietica di aderire al Patto Atlantico nel 1954, e più ancora a come tra il 1972 e il 1973 la proposta sovietica di mediazione nel conflitto arabo israeliano (che costò a Mosca la "perdita" dell'Egitto) fu ignorata e umiliata da Washington (ben lieta piuttosto di "guadagnare" l'Egitto lasciandogli intanto fare una guerra, e che guerra!). Le memorie di uno dei più intelligenti ed aperti diplomatici sovietici (Valentin Falin) indicano quella vicenda come un punto di flesso nella politica interna di Mosca. Dico questo per indicare come da una parte la crisi economica mondiale degli anni Settanta offrisse oggettivamente all'URSS le carte per assumere un ruolo cooperativo e propositivo essendo forte di un'economia ancora vitale e di un quadro complessivo ancora aperto e influenzabile, mentre dall'altro le condizioni politiche (a parte le capacità soggettive) erano fortemente sfavorevoli. A metà degli anni Ottanta, poi, tutto giocava contro. Ma la grande carta fu giocata ugualmente, con gli effetti che conosciamo. E tra gli effetti c'è anche il modo in cui la Germania si unificò, e perciò anche il modo in cui l'Europa prese una certa forma intorno alla Germania unificata.
Cioè?
Tornando ancora un attimo indietro, bisogna premettere che l'unità della Germania era stata insieme un obiettivo e una carta da giocare, per Mosca, costantemente fin dal 1945. Tuttavia nel 1990, allorché la riunificazione s'imponeva nell'ordine del giorno globale, l'URSS rinunciò alla condizione fondamentale sempre strettamente associata ad ogni suo passo in quella direzione, ossia la neutralità del ricostituendo Stato tedesco. Non mi risulta che la storiografia abbia ancora esplorato le possibili ragioni di quella rinuncia. Ipotizzo che si trattasse di un tentativo di placare il nervosismo americano circa la stretta cooperazione economica tedesco-sovietica che si profilava, e che Mosca considerava essenziale per rendere sostenibili le riforme interne, disaccoppiandola da ogni possibile implicazione geopolitica. In realtà gli americani intascarono la concessione ringraziando appena, e si affrettarono ad appropriarsi anche del denaro tedesco. Lo strumento di ciò fu il finanziamento, ottenuto da Bonn mediante pressioni pesantissime, di quella breve ma intensa guerra "mondiale" (per le dimensioni e la diffusione delle forze impegnate) che fu scatenata con l'obiettivo immediato di reinsediare l'emiro del Kuwait e quello reale e strategico di mostrare al mondo un nuovo e unilaterale potere dominante, e come questo fosse veramente pronto a tutto.
Senza dire che l'annessione della Germania Est alla Germania Ovest - peraltro in spregio all'orientamento prevalente fino ad allora tra le forze più attive nel movimento di dissenso entro la DDR - fu rapidissima, ed ebbe tra i suoi strumenti l'improvviso annuncio del cambio alla pari tra marchi occidentali e marchi orientali, cioè una mossa economica non soltanto demagogica ma anche talmente ardita e temeraria (nonché destinata ad avere effetti reati e permanenti di carattere socialmente catastrofico a lungo termine nell ex Germania Est) da fare impallidire al confronto un'ipotetica fuoruscita dall'euro dall'oggi al domani...
Infatti. Quando sento parlare dell'uscita dall'euro come di una follia, ricordo sempre che sarebbe comunque meno folle di ciò che fece allora Kohl: una immediata riconversione tra marco dell'Est e marco dell'Ovest al cambio di 1 a 1 per le partite correnti (e di 2 marchi dell'Est per un 1 marco dell'Ovest per patrimoni e debiti). Se pensiamo che quell'operazione era il viatico imprescindibile per Maastricht e l'euro, possiamo tranquillamente dire che in realtà l'euro, in ultima analisi, da una follia è nato. Per non parlare della soluzione adottata al momento di varare la nuova moneta europea: a quel punto sarebbe stato preferibile (penso talvolta) riconoscere e organizzare una pura e semplice (e soprattutto chiara) area del marco, che mediante negoziati simili a quelli di Bretton Woods conferisse alla Germania non solo opportunità ma anche responsabilità. Questo serve anche a dire che le follie, in politica, non sono vietate in quanto tali, e che se oggi non si esce dall'euro è solo perché non ci sono possibili fautori di quest'iniziativa che abbiano l'intelligenza e la forza necessarie per portarla avanti.
Dunque giungiamo al dibattito più recente, che in Italia ha assunto come sempre toni isterici e banalizzanti: da una parte un centrosinistra che ha fatto dell'europeismo ad ogni costo la propria religione, e dall'altra un blocco di centrodestra che, pur essendo ancora fortemente liberista, assume posizioni talora più e talora meno eurocritiche, sebbene sia spesso accusato di porle in termini meramente demagogici. E senz'altro abbiamo visto forze politiche come il Movimento 5 Stelle agitare opportunisticamente la bandiera dell'Italexit, con ciò garantendosi un importante consenso nonostante le tante contraddizioni, per poi abbandonarsi all'abbraccio con le spinte più retrive che oggi agiscono dietro il sipario dell'Unione Europea. Secondo lei, quale atteggiamento dovremmo e potremmo realisticamente tenere?
Anzitutto mi preme precisare che il termine "demagogia" non necessariamente deve avere una connotazione negativa: in realtà costruire parole d'ordine in grado di penetrare nel senso comune o evocare la forza di miti sono operazioni importanti e, in alcuni casi, necessarie a sbocchi produttivi. Vorrei ricordare del resto che uno degli uomini politici da me più stimati, Franklin Delano Roosevelt, veniva tacciato come demagogo privo di scrupoli in certi salotti di rilievo. Nel caso specifico, perciò, dico che dell'UE bisogna senz'altro parlar male, e che è un errore lasciare questa critica alla destra. Ma ovviamente parlarne male non basta: "sbattere i pugni", per usare un'espressione corrente, diventa in breve un piglio meramente puerile se non si è conseguenti nel concreto, pur in base a ciò che è possibile e realistico fare. E io credo che una cosa si possa e si debba fare: cominciare realmente a disobbedire. In fondo la politica sa (e ha sempre saputo) che i trattati sono infine “pezzi di carta”, e questa consapevolezza, se non viene usata per il male (magari per invadere un altro Stato violandone la neutralità, come accadde appunto nel 1914), può essere preziosa. Può per esempio smitizzare l'assolutezza di certi accordi nel momento in cui si rivelano non al servizio, bensì contro, diritti ben superiori e decisamente più generali. Nel 1991, ad esempio, la Serbia non aspettò una formale uscita dagli allora vigenti accordi monetari - ossia il rigido ancoraggio al marco tedesco - per cominciare di fatto a mettere in circolazione più dinari di quanto accordi evidentemente insostenibili la autorizzassero a fare. E perciò andò incontro alla tremenda punizione che conosciamo. Non dico che questa possa essere una proposta praticabile oggi ad esempio in Italia, e certamente non ho ricette: dico però che fu un esempio storicamente concreto di disobbedienza, e che su pratiche disobbedienti anche noi - per quel che è possibile e giusto - dobbiamo concretamente cominciare a ragionare e incamminarci.
Tuttavia abbiamo l'esempio della Grecia...
La Grecia di Tsipras offre una lezione importante: non si può fare un tentativo in direzione opposta rispetto a certi poteri e poi, a tentativo fallito, mettersi a braccetto con quei poteri. In altre parole: non si può andare contro l'Unione Europea se non si sradica prima dalla propria testa e dalla propria cultura politica i dogmi del patriottismo europeo o della lealtà costituzionale europea. Ci sono vari modi di affrontare una Brest-Litovsk: si può fare come Lenin, che firma un trattato umiliante nella consapevolezza di non potere altrimenti ma nondimeno continua ad avere chiaro il giudizio sul proprio avversario, e a calibrare di conseguenza la strategia futura. Oppure si può fare come Tsipras, che cede ideologicamente, prima ancora che politicamente o economicamente, a un bizzarro lealismo nei confronti di coloro che lo hanno umiliato ma che lui, evidentemente, non considera per principio avversari. Questo è esattamente ciò che non si deve, che non si può fare.
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