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Scienza e disinformazione (rileggendo Guy Debord)



La guerra delle narrazioni è forse al suo apice, e i più recenti sviluppi tecnologici le consentono di essere combattuta in un'ottica totale. Ma ha una storia molto lunga, che vale la pena esplorare perché si sedimentino nel nostro dibattito intuizioni critiche finora affidate per lo più a discussioni di nicchia o a citazioni da social. Perciò, fra le nostre intenzioni, c'è anche quella di proporre materiali più articolati, strumenti di approfondimento e messa a punto che cercheremo di sviluppare nei prossimi mesi attraverso una serie di articoli, interviste, dibattiti. Per cominciare, qui di seguito riportiamo due folgoranti capitoletti dei "Commentari alla società dello spettacolo", pubblicati da Guy Debord nel 1988. Presentando quel volume - che si ricongiungeva idealmente al capolavoro debordiano del 1967 - Agamben notava «l'accanimento con cui la storia sembra essersi adoperata a confermare le sue analisi», e leggendo le righe che seguono non si potrà che dargli ragione.



XIV - Si sente dire che ormai la scienza è subordinata a imperativi di redditività economica; ciò è vero da sempre. Il fatto nuovo è che l’economia ha cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza. È stato allora che il pensiero scientifico ha scelto, contro gran parte del proprio passato antischiavista, di servire il dominio spettacolare. Prima di arrivare a questo punto la scienza godeva di una relativa autonomia. Perciò sapeva pensare il suo briciolo di realtà; e in tal modo aveva potuto contribuire immensamente ad aumentare i mezzi dell’economia. Quando l’economia onnipotente è diventata folle - e i tempi spettacolari non sono altro che questo - ha soppresso le ultime tracce dell’autonomia scientifica, inscindibilmente sul piano metodologico e su quello delle condizioni pratiche dell’attività dei «ricercatori». Non si chiede più alla scienza di capire il mondo, o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa. Stupido in questo campo come in tutti gli altri, da lui sfruttati con l’irriflessione più nefasta, il dominio spettacolare ha fatto abbattere l’albero gigantesco del sapere scientifico al solo fine di ricavarne un manganello.


Per obbedire a questa ultima domanda sociale di una giustificazione manifestamente impossibile, è meglio non saper più pensare troppo, ma essere al contrario abbastanza abituati alle comodità del discorso spettacolare. Infatti è proprio in questa carriera che la scienza prostituita di questi tempi spregevoli ha trovato prontamente la sua più recente specializzazione, con molta buona volontà. La scienza della giustificazione menzognera era apparsa naturalmente fin dai primi sintomi di decadenza della società borghese, con la proliferazione cancerosa delle pseudoscienze dette «umane»; ma, ad esempio, la medicina moderna era riuscita per un certo tempo a spacciarsi per utile, e coloro che avevano sconfitto il vaiolo o la lebbra erano ben diversi da quanti hanno capitolato vigliaccamente di fronte alle radiazioni nucleari o alla chimica agroalimentare. Si fa presto ad osservare che oggi la medicina non ha più il diritto di difendere la salute della popolazione dall’ambiente patogeno, perché ciò significherebbe opporsi allo Stato, o anche soltanto all’industria farmaceutica. Ma non è soltanto per mezzo di ciò che è obbligata a tacere, che l’attuale attività scientifica confessa ciò che è diventata. È anche per mezzo di ciò che essa molto spesso ha l’ingenuità di dire.


Annunciando nel novembre del 1985 di avere probabilmente scoperto un rimedio efficace contro l’Aids, i professori Even e Andrieu dell’ospedale Laènnec suscitarono due giorni dopo, essendo morti i pazienti, alcune riserve da parte di vari medici, meno avanzati rispetto a loro o forse invidiosi, per il loro modo piuttosto precipitoso di correre a far registrare quella che era solo un’apparenza ingannevole di vittoria appena poche ore prima del crollo. E quelli si difesero senza scomporsi, affermando che «dopo tutto meglio una falsa speranza che nessuna speranza». Erano addirittura così ignoranti da non riconoscere che questo solo argomento bastava a rinnegare completamente lo spirito scientifico; e che storicamente era sempre servito a mascherare le proficue fantasie dei ciarlatani e degli stregoni, nei tempi in cui non si affidava loro la direzione degli ospedali.

Quando la scienza ufficiale arriva al punto di essere diretta in questo modo (come tutto il resto dello spettacolo sociale che sotto una veste materialmente ammodernata e arricchita non ha fatto altro che riprendere le antichissime tecniche dei teatrini ambulanti - illusionisti, imbonitori e protettori), non possiamo stupirci di vedere la grande autorità che riacquistano parallelamente, un po’ dappertutto, i maghi e le sette, lo zen imballato sotto vuoto o la teologia dei mormoni. L’ignoranza, che ha servito bene le potenze costituite, è stata per di più sempre sfruttata da aziende ingegnose che si tenevano ai margini delle leggi. Quale momento più propizio di quello in cui l’analfabetismo ha fatto tanti progressi?


Ma questa realtà è a sua volta negata daun’altra dimostrazione di stregoneria. Al momento della sua fondazione l’Unesco aveva adottato una definizione scientifica, molto precisa, dell’analfabetismo che si prefiggeva di combattere nei paesi arretrati. Quando si è visto riapparire inopinatamente lo stesso fenomeno, ma stavolta nei paesi detti avanzati, come qualcun altro che aspettando Grouchy vide spuntare Blucher nella battaglia, è bastato gettare nella mischia le truppe scelte degli esperti; e con un unico assalto irresistibile essi si sono affrettati a eliminare la formula, sostituendo il termine analfabeta con quello di illetterato: così come un «falso patriota» può comparire al momento giusto per sostenere una buona causa nazionale. E per corroborare tra pedagoghi la pertinenza del nuovo termine ci si affretta a far passare rapidamente, come se fosse ammessa da sempre, una nuova definizione, secondo la quale mentre l’analfabeta era, come si sa, colui che non aveva mai imparato a leggere, l’illetterato in senso moderno è al contrario colui che ha imparato la lettura (e anzi l’ha imparata meglio di prima, come possono freddamente testimoniare seduta stante i teorici e gli storici ufficiali della pedagogia più dotati), ma che casualmente l’ha dimenticata subito. Questa sorprendente spiegazione rischierebbe di essere meno rassicurante che inquietante se non fosse così abile da evitare, sfiorandola come se non la vedesse, la prima conseguenza che sarebbe venuta in niente a ognuno in epoche più scientifiche: ovvero che quest’ultimo fenomeno meriterebbe di essere a sua volta spiegato, e combattuto, perché non aveva mai potuto essere osservato né immaginato da nessuna parte, prima dei recenti progressi del pensiero avariato, quando la decadenza della spiegazione accompagna di pari passo la decadenza della pratica.


XVI - Il concetto, ancora giovane, di disinformazione è stato importato recentemente dalla Russia, insieme a molte altre invenzioni utili alla gestione degli Stati moderni. È sempre impiegato nel senso più alto da un potere, o come corollario da persone che detengono un pezzo di autorità economica o politica, per mantenere ciò che è istituito; e sempre attribuendo a tale impiego una funzione controffensiva. Ciò che può opporsia una sola verità ufficiale dev’essere necessariamente una disinformazione proveniente da potenze ostili, o quanto meno da rivali, e deve essere stata intenzionalmente falsata per malanimo. La disinformazione non è la semplice negazione di un fatto che conviene alle autorità, o la semplice affermazione di un fatto loro sgradito: questo si chiama psicosi. Contrariamente alla pura e semplice menzogna, la disinformazione (e qui il concetto diventa interessante per i difensori della società dominante) deve fatalmente contenere una certa parte di verità, ma deliberatamente manipolata da un abile nemico. Il potere che parla di disinformazione non si crede assolutamente privo di difetti, ma sa che potrà attribuire ad ogni critica precisa l’eccessiva inconsistenza che è nella natura della disinformazione; e in questo modo non dovrà mai ammettere un difetto particolare. Insomma, la disinformazione sarebbe il cattivo uso della verità. Chi la diffonde è colpevole e chi le crede imbecille. Ma chi sarebbe dunque l’abile nemico?

[...] In realtà tutti i poteri insediati, nonostante qualche effettiva rivalità locale, e senza volerlo mai dire, pensano continuamente ciò che aveva ricordato un giorno, da parte sovversiva e senza grande successo immediato, uno dei rari internazionalisti tedeschi dopo l’inizio della guerra del 1914: «II nemico principale è nelnostro paese». In definitiva la disinformazione è l’equivalente di ciò che «le cattive passioni» rappresentavano nel discorso della guerra sociale dell’Ottocento. È tutto ciò che è oscuro e rischierebbe di volersi opporre alla straordinaria felicità di cui questa società, come ben sappiamo, fa beneficiare coloro che le hanno dato fiducia; felicità il cui costo, mai troppo caro, consiste in vari rischi o irrilevanti delusioni. E tutti quelli che vedono tale felicità nello spettacolo ammettono che non c’è da lesinare sul prezzo; mentre gli altri disinformano.


L’altro vantaggio che si trova nel denunciare, spiegandola in questo modo, una particolare disinformazione è che di conseguenza il discorso complessivo dello spettacolo non può essere sospettato di contenerla a sua volta, perché esso può designare, con la sicurezza più scientifica, il terreno dove si riconosce la disinformazione: è tutto ciò che si può dire e che non gli aggrada. Probabilmente è per sbaglio (a meno che non si tratti piuttosto di un inganno deliberato) che direcente in Francia si è ventilato il progetto di attribuire ufficialmente al materiale mediatico una sorta di marchio che garantisca «l'assenza di disinformazione», cosa che ha offeso certi professionisti dei mass media, i quali volevano ancora credere - o più modestamente far credere - di non essere effettivamente censurati già da ora.


Ma soprattutto, il concetto di disinformazione non deve essere usato difensivamente, e ancor meno in una difesa statica, rinforzando una muraglia cinese, una linea Maginot che dovrebbe coprire completamente uno spazio che si suppone vietato alla disinformazione. Bisogna che ci sia una disinformazione, e che essa resti fluida, capace di passare dappertutto. Sarebbe stupido difendere lo spettacolo là dove non è attaccato; e questo concetto si logorerebbe con un’estrema velocità difendendolo, contro l’evidenza, su punti che devono al contrario evitare di mobilitare l’attenzione. Inoltre, le autorità non hanno alcun autentico bisogno di garantire che una certa informazione non contenga disinformazione. E non ne hanno i mezzi: non sono così rispettate, e non farebbero che attirare il sospetto sull’informazione in questione. Il concetto di disinformazione è valido solo nel contrattacco. Bisogna mantenerlo in seconda linea e poi lanciarlo immediatamente in avanti per respingere ogni verità che si presenti.

Se talvolta rischia di apparire una sorta di disinformazione disordinata, al servizio di alcuni interessi privati provvisoriamente in conflitto, e di essere a sua volta creduta, diventando incontrollabile e opponendosi in tal modo al lavoro complessivo di una disinformazione meno irresponsabile, non è affatto il caso di temere che nella prima siano impegnati altri manipolatori più esperti o più sottili: è semplicemente perché la disinformazione si dispiega ormai in un mondo in cui non c’è più posto per nessuna verifica.


Il concetto confusionario di disinformazione è messo in risalto per confutare istantaneamente, grazie semplicemente al suono del termine, ogni critica che le varie agenzie di organizzazione del silenzio non fossero riuscite a far sparire. Ad esempio, un giorno si potrebbe dire, se ciò fosse utile, che questo scritto è un’impresa di disinformazione sullo spettacolo, oppure di disinformazione ai danni della democrazia, che è lo stesso. Contrariamente a quanto afferma il suo concetto spettacolare opposto, la pratica della disinformazione non può che servire lo Stato qui e ora, sotto la sua guida diretta, o per iniziativa di coloro che difendono gli stessi valori. In realtà la disinformazione risiede in tutta l’informazione esistente, e come suo carattere principale. È nominata soltanto dove occorre mantenere, con l’intimidazione, la passività.



Dove la disinformazione è nominata, non esiste. Dove esiste, non la si nomina. Quando esistevano ancora delle ideologie che si scontravano, che si proclamavano a favore o contro un dato aspetto conosciuto della realtà, c’erano fanatici e bugiardi ma non «disinformatori».


[da G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo]

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