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Note sul capro espiatorio [prima parte]



Chi critica le misure pandemiche - dall'obbligo vaccinale al lasciapassare - è convinto che i fondamenti della convivenza democratico-costituzionale (già in precario equilibrio) siano ormai venuti meno. Ebbene, non è il solo. Anche i tanti che lo deridono, lo insultano, lo ghettizzano e vorrebbero vederlo morto (un veloce giro sul web dimostra che non esagero) presagiscono, sia pur confusamente, il collasso sociale: proprio da qui nasce il problema.


Questi integralisti del pandemismo assomigliano molto a quel che René Girard definiva folla. Cioè l'insieme che si costituisce all'ombra di istituzioni ormai indebolite e reagisce al disequilibrio. Salvo che «le cause naturali di ciò che la sconvolge» non sono alla portata della folla, che per definizione «cerca l'azione» e quindi «una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza». Sicché «i membri della folla sono sempre persecutori in potenza: sognano di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la insidiano». Così si legge in quel mirabile compendio delle teorie girardiane che è Il capro espiatorio.


Chiaro è che le folle nostrane non sono diventate tali a causa della pandemia, per quanto la loro percezione li porti a crederlo: del resto, se questi onest'uomini non fossero convinti di odiarci in virtù di una necessità sanitaria o di una minaccia imminente sarebbero costretti a percepirsi per quel che sono, cioè appunto persecutori uniti da una mobilitazione partigiana e superstiziosa contro un nemico designato a priori. E dovrebbero scoprire che la loro angoscia, con la violenza che ne sgorga, non è in fondo paura del virus, ma appunto il sentimento indistinto e terribile della rovina di un intero ordine sociale. «Il crollo delle istituzioni cancella o appiattisce le differenze gerarchiche e funzionali conferendo a ogni cosa un aspetto monotono e insieme mostruoso» dice ancora Girard. Crea cioè una società indifferenziata - il magma caotico del medesimo, del tutti contro tutti - nella quale urge ristabilire un confine e un ribilanciamento.


Occorre, cioè, rinsaldare un patto sociale, e lo si fa a spese di una vittima, ossia mimando l'immemoriale rito dell'assassinio collettivo che è il fondamento antropologico dello stereotipo persecutorio. Ecco infatti diffondersi l'idea che «un esiguo numero di individui, persino uno solo, possa arrecare un nocumento esiziale all'intera società, a dispetto della sua debolezza apparente», idea che si rafforza perché sostenuta da accuse stereotipate in ragione delle quali il presunto malfattore avrebbe un potere diabolico di indifferenziare l'intera comunità colpendola «direttamente al cuore o alla testa», e contaminandola con crimini indifferenziatori (il parricidio, ad esempio). Lo si va a cercare generalmente fra le minoranze non del tutto integrate o integrabili nello statuto sociale maggiormente diffuso, e gli vengono riconosciuti segni di selezione vittimaria che possono consistere in anomarlità fisiche o sociali. Il nodo essenziale, comunque, è sempre lo stesso: il nemico incarna una differenza che non sta dentro il sistema condiviso (il quale, in quel caso, non sarebbe più indifferenziato e in crisi) bensì al suo esterno.


Si può discutere se lo schema di Girard sia utile a decifrare il nostro presente - cioè lo slancio discriminatorio indotto su chi rifiuta la gestione pandemica e la dogmatica vaccinale - ma è difficile negare che tratti fortemente vittimari siano oggi scolpiti addosso ai dissidenti sanitari con un inaudito concentrato di violenza verbale, cannoneggiata incessantemente dai media e dalle reti sociali. La figura emblematica di questa dissidenza, il non vaccinato, è variante contemporanea dell'untore di manzoniana memoria (sì, LaScienza come il Seicento barocco): ormai equiparato all'assassino - particolarmente degli anziani, con assonanze sottilmente parricide - è trattato egli stesso alla stregua di un virus che indifferenzia la società tramite il contagio, e fatto oggetto di esclusione e caccia (questa la metafora giornalistica più in voga).


Ci sono però dei distinguo. Tanto per cominciare, potremmo allargare i confini del percorso indifferenziante delle società occidentali (non ovunque uguale come non uguali sono i livelli di politicizzazione della crisi sanitaria oggi). Percorso che - in un senso più ampio - nasce quantomeno nel passaggio al sovranazionale in Europa e nella crisi dell'egemonia americana (per non dire di ben più remoti prodromi). In concomitanza con l'indebolimento strategico delle istituzioni rappresentative e dello Stato di diritto, l'avvio di una prassi emergenziale prolungata all'infinito, la proletarizzazione del ceto medio, la demonizzazione del pubblico, la blindatura dell'informazione. E, in generale, la violenza consumistica sdoganata come modello, in un circolo di desiderio e imitazione che fa assurgere l'impulso egoistico a fondamento del sociale.


La pandemia insomma - quali che siano le sue origini - è politicamente usata come dispositivo finale di una crisi di lunga durata, che è la crisi delle dinamiche globalizzanti. In una battuta - e con tutto l'onere del paradosso - la spinta violenta contro il non vaccinato da "stanare" è nata quando l'impiegato e l'operaio hanno realizzato che il potere d'acquisto del loro salario era diminuito di una buona metà. O quando un genitore e suo figlio si sono sentiti autorizzati a picchiare un docente reo di non aver valutato secondo i desiderata. O quando il linguaggio della politica è diventato identico a quello del rotocalco televisivo, della tribuna calcistica, dell'intrattenimento popolare.


Non c'è nulla di "naturale", sia chiaro: la disgregazione degli ordini culturali e morali, del percepito istituzionale, delle microgerarchie economiche che differenziavano il grosso del corpo sociale è stata indotta - con grave azzardo - come elemento di un'ingegneria appositamente indifferenziante e livellante (verso il basso), passo necessario a smaterializzare e finanziarizzare definitivamente i rapporti di potere globali. Ed è stata spinta fino alle più radicali conseguenze da un'élite quantomai determinata e spregiudicata.


Capri espiatori e antipolitica


Il fenomeno è transnazionale, ma l'Italia - per varie ragioni anello debole della catena di ristrutturazione del potere - rappresenta un laboratorio esemplare. Varrà la pena ripercorrerne la storia recente (e si perdoni la semplificazione). Qui da noi il fervore palingenetico della folla si è esercitato da subito prevalentemente all'interno. E nella più classica delle dinamiche: l'identificazione del capro espiatorio con la classe politica (del resto i rischi che provengono da una folla scatenata sono «statisticamente più elevati per i privilegiati», osserva ancora Girard, notando come sia «quasi una legge che le folle si rivoltino contro coloro che hanno esercitato su di esse un particolare ascendente»).


Abbiamo dunque visto cadere gli Andreotti e i Craxi (quest'ultimo già ricordato da Luca De Fusco in un Elogio del Capro Espiatorio nato proprio da un confronto con Girard), additati alla folla come untori primi di ogni possibile tumore sociale. Intendiamoci: non si vuole negare che la classe politica di allora (e di oggi) fosse (e sia) colma di gravi difetti, ma una volta entrati nella logica del capro espiatorio non è più quello il punto: «le distorsioni persecutorie» per citare ancora Girard «non sono incompatibili con la verità letterale dell'accusa»: anche qualora l'individuo abbia commesso ciò che gli viene imputato, la folla «invece di vedere nel microcosmo individuale un riflesso o un'imitazione del livello globale, cerca nell'individuo la causa e l'origine di tutto ciò che la minaccia».


Infatti quel passaggio non modificò né le opacità delle macchine-partito, pur sottoposte a restyling, né l'identità di molti attori, promossi semplicemente dalle retrovie alla prima linea. Certamente, però, l'isteria collettiva coprì gli smottamenti profondi della nuova fase (e il progressivo indifferenziarsi della comunità tutta) bipolarizzando lo spettacolo e le sue forme. L'illusione dell'alternanza - data ad intendere come strumento di discontinuità mentre era l'alibi di una sostanziale continuità - sul sostrato di famiglie militanti non estranee a una concezione militar-religiosa dell'appartenenza politica, produsse l'effetto sperato per qualche decennio.


E così, una volta detronizzati i protagonisti della prima repubblica, la retorica della casta si è potuta ristrutturare in una forma teatralizzata, poco più che ludica, anestetizzata nel suo potenziale destabilizzante. Conservata il tanto necessario a mantenere spartiacque ideologici e bolle di consenso. Un gioco bipartisan, insomma, con le necessarie valvole di sfogo. Tutte accuratamente predisposte e sovreccitate all'occorrenza. Come quelle concesse a sinistra - fra un girotondo e l'altro - contro lo sgangherato homo novus Berlusconi, additato quale emblema di un'élite corrotta (contro cui si sarebbe a lungo sognato un revival di Mani Pulite) e compiacente spalla di siparietti provocatori che rinfocolavano la curva avversaria, mentre a destra ci si compattava contro i residuati del vecchio ceto post-comunista o post-democristiano, già gravati dall'imprinting della politica politicante (altro aspetto del retaggio di Mani Pulite). Ancor oggi, la spettacolarizzazione dell'hate speech, censurato dai progressisti che lo usano però a piene mani contro i loro avversari (i quali ringraziano), nasce da quel bipolarismo delle coscienze frammisto a presunte vocazioni salvifiche, ragioni morali o moralistiche e anti-ismi di cartone che hanno frammentato la dialettica del capro espiatorio diretta verso l'alto, sterilizzandola.


E indirizzandola, però, verso una transizione sistemica: non più per l'assassinio collettivo di una classe dirigente, ma per il definitivo smantellamento della democrazia rappresentativa e dell'ordine costituzionale. Ciò implicava che al vecchio capro espiatorio - il politico, pur mantenuto come feticcio - se ne sostituissero gradualmente altri, dentro il tessuto vivo della società, come infatti è stato.


Ma andiamo con ordine. Nel 2007 - mentre il PdL nasceva su un predellino contro i «parrucconi della politica», e il neosegretario del PD varava l'ennesimo lifting del centrosinistra condannando i partiti divenuti «caste di professionisti» - Stella e Rizzo, firme di un quotidiano non proprio antisistema, partorivano il noto La Casta che, fra l'altro, codificava il repertorio argomentativo del grillismo. Il quale, già in gestazione, sarebbe esploso due anni dopo, e dal 2011 avrebbe assorbito (per certi versi e con importanti differenze) una parte in commedia simile a quella del primo berlusconismo: da un lato i nuovi barbari armati contro i politici di professione - in nome di efficienza, pulizia, pragmatismo - e dall'altro un fronte partitico ricompattato contro l'irresponsabilità e la volgarità. Con la rimodulazione della dialettica giustizialismo/ garantismo (ora chi aveva sognato la forca per Berlusconi ne aborriva la sola idea in nome dei diritti), sempre buona ad agitare (teatralizzandolo) lo spettro di una novella igiene del mondo targata 1992.


La rabbia popolare veniva quindi inscatolata nel nuovo movimento, che solleticava istanze radicali (l'insofferenza per l'Unione Europea o per le politiche migratorie) salvo dismetterle all'occorrenza o annegarle nel mare delle suggestioni globaliste (democrazia digitale, decrescita green, intelligenza artificiale, reddito universale, ridimensionamento della rappresentanza). E mentre al grido di uno-vale-uno (riletto in chiave indifferenziante più che egualitaria) i novelli paladini s'incaricavano dell'affondo definitivo sulle istituzioni rappresentative, gli altri costruivano una geografia sociale ad uso e consumo delle loro "riforme". Le tifoserie venivano ad arte spostate da trincee pseudo-ideologiche a trincee morali, ciascuna delle quali si dava il compito di restituire al corpo sociale la sua armonia eliminando l'altra (presupposto di ogni prospettiva persecutoria). E l'altro - il tumore in grado di disfunzionalizzare il corpo sociale tutto - è stato di volta in volta indicato in specifiche categorie: ora i dipendenti pubblici e gli insegnanti (improduttivi o fannulloni), ora i piccoli imprenditori e le Partite IVA (evasori opportunisti), ma poi anche il proletariato urbano (razzista e ignorante) o il dissenso (disfattista e terrorista) o i giornalisti non allineati (bufalari e inquinanti) e altri gruppi via via trascoloranti dall'economico all'etico/politico.


Oggi possiamo dire che forse la debolezza dell'esperimento giallo-verde, quali che siano state le sue vere origini e le vere cause della sua fine, era già in queste premesse. E comunque, senza poter ripercorrere tutti i passaggi, il risultato è quello che vediamo oggi.


Primo: la delegittimazione totale della democrazia rappresentativa, plasticamente figurata dal presidente tecnico cui il Parlamento si sottomette senza battere ciglio (ironia della sorte, il passaggio è rintoccato di nuovo da un cronista del Corriere, oggi in libreria con Razza poltrona). Oltretutto in una situazione in cui la magistratura - e dunque quel famoso spettro del 1992, finora ciclicamente rivitalizzato - è sepolta dagli scandali. Secondo: col Parlamento ormai commissariato, la furia persecutoria della folla non può che essere definitivamente reindirizzata dentro la società, come in ogni regime autoritario accade da sempre. Ma ora si forgia il capro espiatorio perenne: il cattivo cittadino (di cui il non vaccinato è la proiezione del momento).


G. P. (1 - continua)

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