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Moro non è un caso: è un paradigma

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Fra il 1971 e il 1973, il sistema su cui si reggevano i “Trenta Gloriosi” entra in crisi. Crisi non immediata e neppure economicamente così decisiva come altre del passato, ma destinata a innescare un cambio di paradigma. Vale la pena di citare Adam Tooze (The Deluge, 2014) a proposito della “grande deflazione” dei primi anni Venti del Novecento: la più sottovalutata delle crisi, dalla quale uscirono interi solamente tre modelli di democrazia liberale. Interi si fa per dire, poi, se consideriamo che partiti di estrema destra e di più o meno vaga ispirazione fascista bussarono alle porte del sistema politico francese, e allo stesso modo la secolare democrazia inglese visse quella che Richard Overy ha chiamato età morbosa (The Morbid Age, 2010).


Allo stesso modo, il sistema costruito su Bretton Woods, sul pieno impiego, sulla crescita, sul controllo della circolazione dei capitali (e così accettato ovunque, si vada per esempio a vedere la tassazione dei redditi più alti negli Stati Uniti in quei decenni, o la spesa pubblica del governo federale con la Great Society di Johnson, ereditata e non cancellata da Richard Nixon) si piega, si crepa e si spezza per il tramite di quel fenomeno, allora inspiegabile, detto stagflazione. Le anomalie non riguardano solo il mondo fisico, per restare ancorati al lessico kuhniano. In Italia la crisi arriva a conclusione della stagione del centro-sinistra organico e, esperienza dal punto di vista concreto più significativa, dei governi Fanfani con l'astensione socialista; promotori di importanti riforme tese all'allargamento della partecipazione delle classi popolari alla vita politica e sociale del

Paese. Non è per caso che il nome di Fanfani si lega a quel cruciale momento di svolta che è la scuola media unica, così come si lega a tutti i principali provvedimenti che costruiscono il welfare italiano.


La stagione del centro-sinistra, presieduta in gran parte da Aldo Moro, sembra però preparare a una svolta ulteriore, l'ingresso del partito comunista nell'area della legittimità o, se preferiamo, la fine della conventio ad excludendum su cui si era retto l'ordine italiano (e mediterraneo?) dai tempi di Yalta. Moro in rampa di lancio per il Quirinale non avrebbe ostacolato questo processo: può fare il lettore il parallelo con l'attualità, perché di questi tempi, anzi giorni, è meglio alludere più che esplicitare.



Quel 9 maggio di 43 anni fa la storia ritorna però sul binario, l'anomalia è risolta, il paradigma è difeso: l'operazione è riuscita, ma il paziente è morto. Questa è la tesi che muove il docufilm Non è un caso, Moro - disponibile qui per la visione tramite acquisto o noleggio - di Tommaso Minniti, tratto dall'inchiesta di Paolo Cucchiarelli. Sono numerosi gli elementi di indagine affrontati, ed esposti attraverso una narrazione filmica che mira anche alla cornice, oltre che alla sostanza. Siamo ben lontani nella realizzazione, e per ovvi motivi, dal JFK di Oliver Stone, ma l'impianto è lo stesso: è un film a tesi, nel quale il regista (e il giornalista, che è narratore, guida, e protagonista) contesta la versione ufficiale sulla base di elementi di indagine noti e meno noti. Il paragone non è soltanto dello spettatore, perché fra le battute iniziali del docufilm compare proprio l'idea che il caso Moro sia il nostro caso Kennedy.


La morte di Moro, ufficialmente ucciso dalle Brigate Rosse, ree confesse, viene qui posta al centro di questioni e interessi internazionali. Moro rappresentava infatti la possibilità di uscire dal paradigma di Yalta e di inaugurare qualcosa di innovativo, non soltanto nelle forze politiche coinvolte, ma nell'autodeterminazione dell'Italia, resa de facto, e in parte de iure, impossibile dall'ordine geopolitico postbellico. Un'autentica politica mediterranea, quella che già nel diciannovesimo secolo era stata ostacolata dalla Gran Bretagna, per cui il “mare nostrum” era più “their sea”. Le Brigate Rosse sono, nella ricostruzione del duo Minniti-Cucchiarelli, solo una parte di una cupola più grande, composta da parti dello Stato italiano, dei servizi segreti nostrani, della CIA, della politica democristiana, con al vertice Giulio Andreotti. Certo è che la morte di Moro, con o dopo la stagione gaudente del pentapartito, si pone al crocevia della sempre maggiore presenza di élite finanziarie nel controllo della politica degli Stati nazionali. Il presidente democristiano ci appare, nel discorso finale, come il paradigma alternativo a quello che andava affermandosi: la cultura economica neoliberista, la privatizzazione dei servizi, la riduzione del welfare, la “liberazione” delle energie individuali, l'abbandono del pieno impiego in nome del controllo dell'inflazione. Più di ogni altra cosa, come l'argine politico alla deriva tecnocratica, in cui ai popoli sono sottratte le residue possibilità di scelta, appaltate invece a forze e strumenti di natura “tecnica” che funzionano da pilota automatico.


Attraverso la sua indagine, che si nutre di carte ufficiali, di prove ignorate, di indizi sottotraccia, delle dichiarazioni dei protagonisti, e delle interviste ad alcune personalità coinvolte nelle vicende, il docufilm pone con grande chiarezza la sua versione dei fatti. Per chi, come me, ha una formazione da storico non è semplice accettare la versione proposta come quella reale: non perché vada esclusa a priori, ma perché la storia si fa con i documenti (e quindi questo scetticismo di massima si applica anche alla versione ufficiale degli eventi). L'opera è quindi un ottimo lavoro giornalistico, che serve ad alimentare un dibattito che non va mai spento, e, anzi, suggerisce con arguzia di inserire il caso Moro in dinamiche molto più vaste di quelle domestiche italiane. Ma lo storico resta convinto, e questo è l'amaro disincanto del mondo, che la verità ancora ci sfugge, e continuerà a sfuggirci fino a quando la talpa avrà finito di scavare, e la civetta si alzerà in volo, carte alla mano, per rivedere con chiarezza quanto accaduto. Purtroppo ci vorrà ancora del tempo.


Maurizio Cocco

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