top of page

La civiltà della vergogna e l'epica del gregge

ionò.com


Vergogna è la parola-chiave di ogni regime (esplicito o meno). Perché, per definizione, presuppone lo sguardo dell'altro. Il suo giudizio. La società della vergogna, per come Dodds ce l'ha rappresentata, è quella in cui il parametro morale coincide con il giudizio sociale: l'eroe non è tale se tale non viene riconosciuto dal suo gruppo attraverso un tangibile meccanismo di ricompensa. La sua esistenza corre tutta nella voce pubblica, origine di quella fama che sopperisce alla brevità della vita (perché l'eroe, di fatto, lotta sempre e solo contro la Morte, anche quando le va incontro per coprirsi di gloria). È la storia degli Achei davanti alle mura di Troia. La storia della contesa fra Achille e Agamennone: non proprio una rissa da bar, come voleva il Coleman Silk di Philip Roth. Piuttosto uno scontro di potere, e non per una donna. Per un premio.


Va da sé che - assunta come metro prioritario del Bene - la vergogna genera il più compatto conformismo, e dovremmo ormai saperlo, visto che siamo proiettati sempre più velocemente verso distopie inedite di controllo sociale. Ma ora restiamo all'Iliade.


Canto secondo: Achille ha già abbandonato il campo per l'onta subìta e Agamennone, prima della battaglia che crede decisiva, vuol mettere alla prova l'esercito. Dice ai soldati che ormai, dopo dieci anni di guerra, dispera di avere il favore degli dei e ha dunque deciso di ritirarsi: si torna a casa. Un moto di giubilo invade le schiere. Tutti corrono entusiasti alle navi per salpare. La prova, insomma, se doveva misurare l'adesione profonda delle masse a un copione ideale, fallisce miseramente. Dietro la disciplina militaresca c'era un desiderio di vita - e diciamo pure di normalità - che può affiorare, legittimato dalle parole del comandante, senza vergogna.

Con fatica i capi radunano di nuovo i soldati. Ma anche una volta che l'assemblea si è ricomposta, c'è una voce che continua ad opporsi. Quel famigerato Tersite, deforme perché vile (o viceversa: l'ideale etico, in questo contesto, è anche estetico), si ostina a recriminare che non è sua quella guerra fatta per l'interesse di pochi col sangue di molti. Riusa in buona parte il repertorio che il giorno prima Achille aveva scagliato contro Agamennone. Solo che lui non è Achille. Non è un eroe. Il suo parlare, dice l'aedo, è disordinato (e non solo per un fatto di stile: infrange il kosmos, l'ordine eterno che garantisce le gerarchie umane e divine). Parla cioè da pezzente in un mondo in cui la verità di un discorso dipende da chi lo pronuncia. E poi è solo: passato lo slancio, l'esercito si è prontamente riallineato alla cornice eroica per cui chi non vuole combattere è un vile.



Infatti con un colpo di scettro il ciarlone viene messo a tacere, e i suoi compagni - sì, proprio quelli che un attimo prima avrebbero lasciato gaudenti la guerra, quelli che in fondo la pensano come lui - lo deridono mentre soffoca la sua povera oratoria nel pianto. Ovviamente le sue lacrime non sono paragonabili a quelle che hanno bagnato il viso di Achille supplice sulla riva del mare dopo l'onta subìta. Non è un pianto eroico, questo. L'aedo omerico non può riconoscere un grado di eroismo nel misero che si oppone al potere. Serviranno molti secoli, il cristianesimo, il titanismo romantico e altri prodotti pronti a loro volta per il riuso ideologico e la sublimazione retorica. Fino a che in tempi più vicini - quelli in cui Tersite ha trovato un Concetto Marchesi disposto a riabilitarlo - anche la ribellione degli ultimi si è trasformata in una forma mitologica. Magari per evitare che diventasse realtà, ma su questo la discussione è più che aperta.


Sicuro è invece che la contemporaneità (anche nelle varianti post- o forse iper-borghesi) cerca disperatamente una propria epica. Perfino nei giorni a noi più prossimi, che pure sono il prodotto di una sistematica eradicazione di tutti i presupposti culturali su cui sarebbe potuta sorgere. Infatti se ne producono caricature grottesche, eppure l'appello alla coscienza eroica, con grande sprezzo del ridicolo, è costante nel discorso del potere. Anche perché funziona, almeno fino a quando si riesce a far coincidere il dominio della vergogna con quello della colpa.



Chi ad esempio s'interroga sulle vistose contraddizioni della narrazione vaccinale - specie circa obblighi e lasciapassare - forse non ne ha realizzato bene la struttura epica. Perché tale è (e certo ogni età ha gli aedi che merita), a meno di non voler vedere ciò che ormai è palese: i media hanno eletto gli hub vaccinali a nuovo spazio eroico, e la siringa a ferro attraverso cui passare per essere consacrati nel mito. A prescindere dall'esito: l'impresa sarà onorata, e con essa i suoi eventuali militi ignoti.


Chi rischia la vita (così ha detto Pregliasco, anèr kalòs kaì agathòs per diritto di telegenìa) cos'altro può essere se non un eroe? Soprattutto se lo fa in un'ottica di solidarietà, ossia per la società sotto i cui occhi si svolge la sua esistenza. A metà fra il guerriero antico e il martire cristiano, il vaccinando rappresentato dai tg dovrebbe recarsi alla prova di coraggio come Ettore che lascia Andromaca piangente, perché alle egoistiche ragioni del nido preferisce quelle nobili della patria (anche se i più fanatici, essendo in linea di massima cosmopoliti à la page, non userebbero mai questa parola). Come potrebbe continuare a vivere sapendo di non aver salvato l'umanità?


In realtà il vaccino ha una valenza individuale, più che sociale, dato che non impedisce il contagio (1) e di certo non risolve il problema epidemico, come testimoniano le nude cronache britanniche e israeliane o l'eclatante caso islandese (per un quadro più dettagliato si guardi qui). Ben lo sa il governo italiano che continua a imporre mascherina e distanziamento anche ai vaccinati («finché i dati sull'immunizzazione non evidenzieranno con certezza che oltre a proteggere sé stessi il vaccino impedisce anche la trasmissione del virus agli altri» dice l'IIS), mentre ormai si mette apertamente in discussione anche il miraggio dell'immunità di gregge. Eppure il mantra della vaccinazione come dovere civico continua incessante a comunicarsi di soldato in soldato. Perché è a suo modo un canto epico, che corrobora gli animi dei combattenti davanti alle mura. Di guerra si tratta del resto: è stato detto perentoriamente fin da principio, non per caso. Abbiamo sorriso di fronte all'antropomorfizzazione del virus costantemente praticata da giornalisti e politici, ma non era sciatteria comunicativa: il nemico scappa, si muove, pensa, agisce. Altrettanto si dica per l'uso ossessivo del lessico militare a proposito dei non vaccinati: renitenti, disertori cui dare la caccia.


Il fatto stesso che il vaccino non venga reso obbligatorio de iure è funzionale anche a questa narrativa. L'obbligo giuridico spegnerebbe lo spirito eroico (potrebbe accrescerlo semmai nei resistenti), e appunto è meglio battere sul tasto della vergogna: il traditore sarà condannato dalla riprovazione sociale in quanto moralmente - più che giuridicamente - criminale.


Ecco infatti arrivare l'altro cardine della narrativa epicheggiante: il riconoscimento del valore. Oggi si chiama Green Pass, strumento che - stante la non correlazione fra vaccino e immunità - è politico, non certo sanitario (lo ammette di fatto anche Crisanti). Nell'immediato è la medaglia appuntata al petto dell'eroe, perché non è possibile che chi ha disertato goda degli stessi diritti di chi ha combattuto. E così lo sentono in molti, complice l'agghiacciante campagna d'odio ormai scatenata contro i traditori della patria. I quali devono essere progressivamente espulsi dalla società, perché nell'esclusione si rende permanente e visibile lo stigma sociale (ancora una volta: la loro vergogna). Con contorno di misure che ormai non dissimulano neppure più la loro vocazione unicamente punitiva (ieri, per dirne una, Repubblica riportava che nei piani del governo ci sarebbe la DaD per i docenti non vaccinati, e anche il loro trasferimento ad altra città: cosa sarebbe quest'ultima invenzione se non una sorta di confino dei dissidenti?).



La rappresentazione del vile segue anch'essa uno schema classico, a un ritmo martellante. Perché l'eroe deve confermarsi nel confronto con l'anti-eroe. E perché c'è anche una vasta massa di soldati anonimi - quelli che si sarebbero volentieri dati alla macchia ma hanno continuato a marciare per conformismo - che trovano una ragione nobile al proprio essere eroi per caso, per abitudine o per convenienza nel deridere il Tersite di turno. Il quale è ancora quel che era in quei tempi remoti: forse non deforme nel corpo (senonaltro per rispetto dei codici bias free) ma di certo nella mente, e sporco, cattivo, violento, ignorante. Parla ancora da pezzente in un mondo in cui la verità può essere trasmessa solo dalle agenzie ufficiali, e infrange ignominiosamente il kosmos eterno, inviolabile della teologia "scientifica" e delle sue gerarchie. Mette ancora in questione le ragioni della guerra, senza sapere che l'ardimentoso non ha bisogno di ragioni, ma solo di occasioni.


C'è un punto debole, però. Vuoi perché un Tersite compare sempre quando il sistema comincia a cedere, vuoi perché se il nostro tempo può fabbricare solo epiche posticce una ragione ci sarà. Oggi il 3% degli italiani è contrario ai vaccini, ma il 50% non è favorevole all'obbligo vaccinale, il che significa che attorno al ribelle non c'è un esercito, ma una vasta cittadinanza che la propaganda di guerra non ha saputo (ancora) irregimentare. Non tutti coloro che hanno legittimamente scelto di vaccinarsi hanno vissuto quella decisione come una trincea. L'epica del gregge (e della sua immunizzazione, guidata dai moderni "pastori di popoli") sembra non potersi costruire in rappresentazione totale, e neppure vicina alla totalità. Senza la quale ogni epica, da sentimento, diventa pura retorica. Questo è il vero vulnus, perché per forza d'inerzia si può combattere una battaglia, forse, ma non una guerra. E la guerra dell'eroe è sempre lunga. Forse troppo, per quel vasto popolo che non vuole immortalità ma solo normalità.

G. P.


(1) Sulle possibilità di contagio per vaccinati e non vaccinati abbiamo già, a suo tempo, pubblicato un'analisi di Marco Zuccaro, basata sugli studi della Pfizer e corredata da un interessante link al Corriere della Sera. Qui inoltre è possibile leggere le puntuali osservazioni del prof. Marco Cosentino (Università dell'Insubria) sul tema.

Comments


Also Featured In

    Like what you read? Donate now and help me provide fresh news and analysis for my readers   

PayPal ButtonPayPal Button

© 2023 by "This Just In". Proudly created with Wix.com

bottom of page