Ha conquistato fama globale il caso della Lawrence High School (Massachusetts) che - secondo quanto fieramente annunciato da una sua insegnante su Twitter - avrebbe rimosso l'Odissea dal curriculum scolastico. Di più non è dato sapere, visto che la docente in questione, contattata dalla stampa, si sarebbe trincerata dietro una cortina di riservatezza lamentando l'invasività delle domande. Né risultano ad ora chiarimenti ufficiali dall'Istituto. Ma i fatti noti bastano a giustificare lo sconcerto.
Tutto comincia il 27 dicembre scorso, quando, sul Wall Street Journal, Meghan Cox Gurdon dà conto con preoccupazione delle continue puntate iconoclaste di «ideologi della teoria critica, insegnanti e attivisti di Twitter». Con particolare riferimento alla campagna #DisruptTexts, che - leggiamo sul sito del movimento - si propone di «sfidare il canone tradizionale», troppo etnocentrico e patriarcale, per «creare un curriculum di arti linguistiche più inclusivo, rappresentativo ed equo». Dicono infatti questi docenti ed educatori: «Se è vero che l'analisi testuale e la lettura attenta sono competenze importanti nella formazione degli studenti, gli insegnanti dovrebbero anche aiutare questi ultimi a interrogarsi sul modo in cui tali testi sono costruiti. Chiedi: in che modo questo testo supporta o contesta le questioni di rappresentanza, equità o giustizia? In che modo questo testo perpetua o sovverte le dinamiche e le ideologie dominanti di potere? E come possiamo chiedere agli studenti di lottare con queste tensioni?».
Una didattica militante che - stando ai resoconti sul web - si traduce in esperimenti quantomeno curiosi. Esemplare il thread in cui una docente di Seattle dice che «preferirebbe morire» piuttosto che leggere in classe La lettera scarlatta, a meno che «non s'insegni come combattere la misoginia e lo slut-shaming» (inutile ricordare che forse non esiste romanzo in grado di mettere meglio a nudo le ipocrisie della cultura puritana). Ma non da meno è il lungo post in cui, per la commozione degli altri attivisti, una docente di liceo del Michigan illustra come affrontare - se proprio si deve - Romeo e Giulietta, attraverso adeguata disruption con testi più inclusivi. Dopo aver presentato per sommi capi il dramma shakespeariano (un riassunto, la visione di un film e qualche citazione ad hoc), la docente racconta di avere proposto alla classe il romanzo per adolescenti The Poet X, pubblicato nel 2018 da Elizabeth Acevedo, autrice di origini dominicane. Il parallelo mostrava come in Shakespeare - a differenza che nella Acevedo - ci fossero «ben pochi esempi di quella che oggi avremmo chiamato una relazione "sana"». E con ciò, evidentemente, liquidava il Bardo e tutto il suo mondo valoriale. Analoga operazione è stata poi compiuta su Il buio oltre la siepe, altro classico usato solo per essere "interrotto" grazie al più equo Il coraggio della verità (di nuovo un recentissimo romanzo per adolescenti). In conclusione la docente si dice soddisfatta per il trattamento riservato ai «classici che affliggono il nostro curriculum»: «So che in futuro» - commenta - «sarò meglio attrezzata per sottolineare la struttura oppressiva su cui si basano sia Lee che Shakespeare, se mai tornerò a insegnare entrambe le loro storie».
Nulla di male, ovviamente, nell'introdurre in classe anche letture contemporanee. Ma può essere che ciò diventi condizione per giustificare la cittadinanza scolastica di Shakespeare? Stesso discorso per il cosiddetto canone curricolare: nulla vieta di discuterlo, a patto però di esplorarne le ragioni. O qualcuno crede che Shakespeare vi sia entrato per le sue convinzioni sui gender roles? E assolutamente niente di sbagliato nell'interrogare la dimensione politica di un'opera letteraria, anzi. Ma anche qui bisognerebbe chiarirsi: si vuol discutere «le dinamiche e le ideologie dominanti di potere» oppure le «questioni di rappresentanza» formattate su un cliché liberal-progressista? Perché non si tratta della stessa cosa: l'egualitarismo delle forme, sognato dai liberal americani ed europei, convive benissimo con strutture sociali diseguali, oppressive e competitive (altrettanto sognate e prospettate dai medesimi). Molto meglio di quanto Harper Lee convivesse con quei conservatori che nel 1966 chiesero di bandire il suo romanzo dalle scuole perché immorale (evidentemente il fondamentalismo non ha colore politico).
Al dunque, fra un punto interrogativo e l'altro, e al netto della retorica pedagogistica, il finale è prevedibile. Il classico entrerà in aula solo per sottoporsi a una compulsiva, monodirezionale opera di demolizione ideologica. Adeguata agli standard di una politically correctness al massimo della creatività. E ovviamente, partendo dal classico sfogliato obtorto collo, si arriverà in fretta a modalità più sbrigative. Sebbene i sostenitori della nuova tendenza chiariscano che «non credono nella censura e non hanno mai sostenuto il divieto di libri», l'articolo della Gurdon documenta che più d'uno pare invece aver preso nel senso più radicale quel disrupt bizzarramente trasformato in formula "inclusiva". Fra i cinguettii da lei riportati spicca ad esempio quello dell'insegnante che raccomanda: «Sii come Ulisse e abbraccia il lungo viaggio verso la liberazione (poi togli l'Odissea dal tuo curriculum, perché è spazzatura)». Proprio a quest'invito la docente della Lawrence Hig School, rispondeva con un fiero (e ormai famoso): «Hahaha. Orgogliosa di dire che quest'anno abbiamo rimosso l'Odissea dal curriculum della nostra scuola».
Guerra umanitaria alla cultura occidentale?
In breve: il classico, incrostazione di un'opprimente tradizione scolastica, deve tacere. Al più può essere audito come imputato in un processo-farsa (tali sono di norma i processi politici) il cui giudice è interessato unicamente a verificarne la criminosità per confermare una condanna già emessa. Da testo diventa pretesto, per un'educazione in chiave sociologica che mirerebbe all'inclusione, anche se includere significa in realtà aggregare: appunto il contrario del disrupt, che interrompe/scompone i pilastri di una cultura per incidere sulle identità. Scomponendole e fossilizzandole a loro volta - più di quanto già non sia avvenuto - tramite una netta frattura tra paradigmi.
Non stupisce infatti l'esclamazione di Lorena Germán - fra le principali animatrici di DisruptTexts - nell'ormai nota polemica con la scrittrice Jessica Cluess (che a seguito del battibecco con l'attivista ha detto addio al suo contratto con la Random House Kids): «Sapevi che molti "classici" sono stati scritti prima degli anni Cinquanta? Pensa alla società degli Stati Uniti prima di allora e ai valori che hanno plasmato questa nazione in seguito. Questo è ciò che sta in quei libri».
C'è però da chiedersi a quali valori esattamente alludesse: settant'anni fa, come anche trecento anni fa, la cultura statunitense era tutt'altro che monolitica, e se una virtù possiede la sua letteratura - da Hawthorne a Scott Fitzgerald, Hemingway, Faulkner e via canonizzando - è proprio di averne saputo raccontare le tensioni, aprendone una ad una le ferite. Come del resto si può dire dei grandi autori di ogni epoca. Non a caso serve un classicista come Victor Davis Hanson per ricordare quanto la letteratura occidentale sia da sempre capace di interrogare, e perfino minare il paesaggio stesso che crea: «Per quale motivo» scrive tornando sull'Odissea «Atena, la tenace dea, è molto più astuta degli olimpi maschili come il permaloso sbruffone Poseidon? Come può la brava moglie Penelope, verosimilmente remissiva, aver ragione dei suoi pretendenti, i maschi presumibilmente migliori e più brillanti a Itaca? E com'è possibile che schiavi come il povero Eumeo siano più generosi, leali e sagaci dei liberi e dei ricchi? L'Odissea non si limita a presentare il cosiddetto "patriarcato bianco": contemporaneamente lo interroga».
Tutto ciò per i nostri pare secondario: «Penelope, seduta al suo telaio pazientemente per vent'anni mentre suo marito Ulisse è lontano per combattere la guerra di Troia, non è il modello di comportamento femminile che gli insegnanti aderenti a questo nuovo tipo di book banning vogliono che i loro studenti emulino», riassume Patricia Claus.
Da una parte, insomma, un panorama capace di auto-discutersi. Di comunicare la complessità interna a un quadro culturale. Di produrre appunto una Penelope o un'Antigone, o l'Atticus de Il buio oltre la siepe, interno ma antagonista rispetto a un tempo di segregazionismo e razzismo. Dall'altra, il confezionamento preventivo di modelli privi di sfumature, con quel paternalismo che riduce l'istruzione, anche secondaria, a una perenne pedagogia elementare. Di infantilizzazione del sistema, del resto, ormai si parla perfino per i campus, dominio già acquisito al safe space. Forse anche perché la scansione degli apprendimenti è sempre meno misurata su quei vetusti ruderi letterari, e sempre più sull'ipermarket tecnologico o sulle fasce di mercato definite dall'industria editoriale, oggi proiettata nel fiorente mercato della letteratura YA (Young Adult). Quella con cui pare che i nostri avanguardisti vogliano «decolonizzare» il famigerato canone. O forse ri-colonizzarlo, per giunta con criteri altrettanto ferrei. Formulati nei laboratori à la page di autoproclamate avanguardie che - fra una statua sfregiata e l'altra - dispensano facili catechismi. Lasciando però accuratamente inevasa l'obiezione fondamentale: «Se un danno c'è nella letteratura classica» osserva infatti la Gurdon «esso viene dal non insegnarla. Gli studenti esonerati dalla lettura di testi fondamentali possono immaginarsi fortunati a farla franca con i romanzi per adolescenti - questo è ciò che vogliono i #DisruptTexts - ma rispetto ai loro coetanei più istruiti soffriranno di povertà di linguaggio e riferimenti culturali. E, peggio ancora, neanche lo sapranno».
Il cliente ha sempre ragione?
Certo, a questo punto bisognerebbe chiedersi se avere quei riferimenti culturali, per i nostri innovatori, sia ancora necessario. Forse no, se si pretende che la storia cominci all'altezza degli anni Sessanta. Cioè che l'origine del mondo coincida con l'origine delle proprie idee, le quali appunto montavano in quell'intenso decennio, quando la contestazione - allora prevalentemente nei campus - cominciava a mettere in causa, insieme a molto altro, anche i Great Books dei canoni accademici. Erano infatti quelli, a detta dei nuovi maestri, i presìdi di una cultura elitaria da abbattere per fare spazio a un'istruzione inclusiva: democratica. Dove però democrazia faceva troppo spesso rima con appiattimento, come avrebbe spiegato qualche decennio dopo Allan Bloom nel suo The Closing of the American Mind. «La mancata lettura di buoni libri» scriveva «indebolisce la visione e rafforza la nostra tendenza più fatale: la convinzione che il qui e ora sia tutto ciò che c'è». Appunto. Com'è normale nella dimensione del consumo - cioè dell'effimero - dove esistono solo l'impulso predatorio del soggetto desiderante e la sua immediata soddisfazione.
Rilette oggi, quelle pagine appaiono meno bacchettone e più profetiche, e mettono a nudo molte delle contraddizioni su cui incespicherebbero i DisruptTexts se mai accettassero di aprire volumi pubblicati prima dell'ultimo decennio. Ma anche allora l'imperativo categorico era una sorta di disrupt senza appello, e alla canea liberal che si riversò su Bloom parteciparono anche intellettuali che oggi, a oltre trent'anni di distanza, cominciano finalmente a preoccuparsi per la Cancel Culture dei loro nipoti. Frattanto, col loro plauso, a Stanford si proponeva di rivedere la presenza di Platone, Aristotele, Shakespeare o Dante nei programmi, per ragioni di bilanciamento multiculturale. Ma per il gotha della cultura liberal la vera notizia era un'altra, cioè che il Nobel Samuel Bellow, commentando causticamente l'accaduto (in un'intervista ricordata qui), aveva pronunciato il famoso «Who is the Tolstoy of the Zulus?». Domanda provocatoria e quantomeno infelice, ma non meno della polemica sulla reazione al fatto (per evitare di discutere del fatto) che oltreoceano era già di moda. E quel processo è andato avanti nei campus fino ad oggi. Limitiamoci a due esempi interessanti.
Il primo: nel 2015 alcuni membri del Multicultural Affairs Advisory Board on Literature Humanities della Columbia University hanno richiesto un trigger warning (una sorta di bollino rosso per programmi con contenuti non adatti a un pubblico particolarmente sensibile) per le Metamorfosi di Ovidio e altri classici. Questi testi - hanno detto - «scritti con storie e narrazioni di esclusione e oppressione, possono essere difficili da leggere e discutere per vittime, persone di colore o studenti dal background a basso reddito». Perché la descrizione di violenze o abusi potrebbe turbare persone con vissuti traumatici. Questione serissima, senza dubbio, e meritevole di soluzioni attente. Ma forse la risposta più equilibrata non consiste nel ri-moralizzare Ovidio, o nel cancellare il tema della violenza dalla letteratura (e magari dalla cronaca). Forse esistono strade diverse dalla pura rimozione, o almeno bisognerebbe cercarle. A maggior ragione se poi il ragionamento si può allargare - e si allarga - a qualunque esperienza potenzialmente carica di implicazioni emotive, e si commisura all'infinita gamma delle sensibilità individuali. Ciò che gli studenti in questione appunto fanno, accusando i docenti di ignorare «l'impatto che il canone occidentale ha avuto e continua ad avere sui gruppi emarginati», e proponendo misure precise: avvisi sui testi, reclami anonimi, meccanismi di mediazione fra studenti e docenti, corsi di formazione affinché questi ultimi possano imparare ad essere efficaci facilitatori. Dal (giusto) rispetto per la sensibilità e il vissuto dello studente, insomma, si scivola verso un programma che ricorda vagamente il customer care di un'azienda: differenziazione dei target di pubblico, promozioni personalizzate, servizio clienti, controllo qualità, magari qualche seminario a base di PNL per i venditori (pardon: facilitatori). E la rima fra studente e cliente di certo non è ovidiana.
Non è inutile poi ribadire che questo stesso ragionamento è quello che la scrittrice YA Padma Venkatraman e i suoi amici di DisruptTexts applicano ai bambini della scuola primaria o alle fasce più giovani (si veda qui). A proposito di quella "infantilizzazione" di cui sopra.
Secondo esempio. Ci spostiamo nel Regno Unito, nientemeno che ad Oxford, dove nel 2020 arriva la proposta di eliminare l'Iliade e l'Eneide dalle letture obbligatorie per gli studenti dell'antichissimo corso di litterae humaniores. Il motivo: ridurre il divario di rendimento fra i candidati agli esami, dato che non tutti hanno la necessaria conoscenza delle lingue classiche (ma evidentemente tutti hanno diritto a passare gli esami). Sembra una questione diversa da quella che pongono gli studenti della Columbia, ma forse non lo è. Da una parte, la purga dei classici per garantire il benessere degli studenti. Dall'altra, la rimozione dei classici per favorire il successo degli studenti. Comunque vada, insomma, nel supermercato dell'istruzione, pensato in funzione del consumatore, il classico è un valore sacrificabile, se non un fastidioso problema. Il rapporto qualità/prezzo, per gli standard odierni, non lo premia. Non sarà che alla fine il neoliberismo applicato alla cultura è il vero orizzonte dei "disrupters" e dei loro svariati compagni di strada?
Tutto nasce (e poi finisce) coi Greci
In un modo o nell'altro si torna all'Omero rimosso, perché in questo tempo di furia anti-intellettuale la messa all'indice (soft o hard che sia) dei Greci ha un valore particolare, anche a livello simbolico. Non se ne stupiranno i lettori di Bloom, che alla Grecia guardava per trovare antidoti al nichilismo dei suoi tempi. E chiunque abbia seguito il dibattito sulla decadenza dell'istruzione oltreoceano sa bene che nella rimozione di Omero c'è l'accettazione definitiva dei paradigmi neoliberisti, con quanto di pretestuosamente progressista essi si portano dietro.
Vent'anni fa Davis Hanson e John Heath, nel già ricordato Who killed Homer?, tornavano a lanciare l'allarme sulla crisi delle humanities, ormai preda di fanatismi ideologici sempre più radicali. Osavano denunciare le nuove generazioni di classicisti affiliati a dipartimenti di scienze sociali e decostruzionismi vari: sfidati dalla Storia a «spiegare l'importanza del pensiero e dei valori greci in un'epoca di informazione elettronica, intrattenimento di massa e rozzo materialismo, hanno fallito completamente» scrivevano. E ancor peggio, hanno deliberatamente inteso adulterare e distruggere quel patrimonio «per dimostrare che, in quanto classicisti, sapevano meglio degli altri quanto fossero terribili, sessisti, razzisti e sfruttatori i Greci». In obbedienza a una moda che, malignavano i due autori, in certi momenti poteva rivelarsi remunerativa in termini di carriera e prestigio. Da quell'opportunistica lettura a senso unico, il lento stillicidio di tutta una storia che qualche volenteroso disrupter s'incarica ormai di gettare direttamente nella spazzatura.
C'è però dell'altro. «Per i Greci» proseguivano gli studiosi «l'impulso naturale - se non controllato dalle briglie strette e dal morso della legge, della tradizione e dell'ordine civico - porta non alla verità o alla giustizia, e tanto meno alla liberazione e all'autorealizzazione, ma più probabilmente a un olocausto. Eraclito dice che le persone devono lottare per la loro legge come per le mura della città: entrambe infatti tengono fuori il nemico, l'una quello interno e le altre quello esterno. La città-stato era un'organizzazione sociale che frenava il desiderio senza soffocare l'iniziativa, chiedendo responsabilità in cambio della concessione di diritti limitati. Non era un'istituzione terapeutica o un sistema di credenze onnicomprensivo che potesse liberarci reinventando il temperamento stesso dell'uomo (ciò che è invece lo scopo del fascismo, del comunismo e, sempre più, della democrazia moderna)». Ma al contempo era il serbatoio del proprio continuo auto-superamento: «cinismo, scetticismo, parodia, invettiva e satira sono tutte parole greche e latine: un ricco vocabolario di dissenso pubblico e privato ineguagliabile nelle lingue non occidentali». «È strano quindi» ne concludevano «che i Greci, proprio coloro che hanno iniziato tutto, siano così poco conosciuti nell'America moderna. Ora, proprio nel momento della nostra storia in cui potrebbero aiutarci a ricordarci chi siamo, perché siamo arrivati qui e dove dovremmo andare, solo una manciata di americani ne sa qualcosa».
Strano forse no. Ma drammatico sì. Oggi quell'America e quell'Occidente troverebbero insostenibile una città così fatta. Uno Stato che non sia l'agglomerato confuso di pulsioni individuali uniformate solo da un conformismo culturale al ribasso. E ancor più rifiuterebbe l'idea di una collettività che sa leggere dentro di sé il proprio cambiamento, la propria linea evolutiva. Oggi al dissenso si sostituisce la censura (che infatti sempre più colpisce anche la satira, l'invettiva, la parodia, perfino lo scetticismo se s'azzarda a toccare i dogmi del pensiero egemone, cioè se prova a fare il proprio mestiere). Questa è la società della rottamazione, perennemente afflitta da un prima che sa leggere solo in termini di plurimillenario errore da espiare e dimenticare. La società della cesura che frattura la storia anche se la storia non lo richiede. Dove ai Greci è riservato, nella migliore delle ipotesi, il tritacarta, come anche al vasto cosmo culturale che a loro si è ispirato. Questa è la società che i DisruptTexts del vecchio e del nuovo secolo vogliono? Forse in quella formattazione schematica di modelli buoni vs. modelli cattivi, che diventa automaticamente modelli vecchi vs. modelli nuovi, c'è un'amara risposta. Il Great Reset della cultura, il nulla sarà più come prima applicato alla scuola. In perfetto accordo con la direzione impressa all'economia globalizzata, come sempre spacciata all'insegna dell'inclusione, dell'eguaglianza e perfino della democrazia. La quale invece, di fatto, è sempre più dimenticata. Non per caso è parola greca.
Gavino Piga
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