Credo sia importante disseppellire le pagine di "Descolarizzare la società", il saggio di Ivan Illich che nel 1971 produceva una critica radicale all'istituzione scolastica. Non tanto per riprendere lo specifico dibattito su modelli più volte travisati, banalizzati e teoricamente estenuati. Piuttosto, più in generale, bisogna reimparare a fare critica delle istituzioni, pratica quasi ovunque dimenticata. In questo senso, l'idea che alla società industriale debba sostituirsene una conviviale - cioè conscia dei propri naturali limiti - e che la scuola, come istituzione interna al circuito di produzione industriale, sia una forma di società "andata oltre" è una chiave di lettura suggestiva. Da riscoprire oggi, in tempi di meccanizzazione avanzata dell'esistenza e di assolutizzazione delle istituzioni. Tempi di forte regressione, anche, e di pedagogismi pericolosamente livellanti, di omologazione produttivistica dei saperi, di paternalismi ideologici cammuffati da scienza. E di persone - sempre più numerose - che cercano alternative alle meccaniche riproduttive del pensiero unico e ai suoi santuari. Nell'invitare alla lettura del libro, riportiamo un estratto dal capitolo "Ritualizzazione del progresso".
La scuola inizia al mito del consumo illimitato. Questo mito moderno si fonda sulla convinzione che il processo debba inevitabilmente produrre cose di valore e che la produzione produca quindi necessariamente una richiesta. La scuola ci insegna che l'istruzione produce l'apprendimento. L'esistenza delle scuole produce la richiesta di scolarizzazione. Una volta che abbiamo imparato ad aver bisogno della scuola, tutte le nostre attività tendono ad assumere la forma di un rapporto clientelare con altre istituzioni specializzate. Una volta screditato l'autodidatta, ogni attività non professionale diventa sospetta.
A scuola ci insegnano che un'istruzione valida è il risultato della frequenza; che il valore dell'apprendimento aumenta proporzionalmente all'input, alla quantità di nozioni immesse e, infine, che questo valore può essere misurato e documentato da voti e diplomi. In realtà l'apprendimento è l'attività umana che ha meno bisogno di manipolazioni esterne. In massima parte, non è il risultato dell'istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante. Quasi tutte le persone imparano meglio “stando dentro” le cose, eppure la scuola le porta a identificare l'accrescimento della propria personalità e delle proprie conoscenze con una elaborata pianificazione e una complessa manipolazione.
Una volta che ha accettato la necessità della scuola, un uomo, o una donna che sia, diventa facile preda di altre istituzioni. Una volta che hanno permesso che la loro immaginazione venisse plasmata da un insegnamento rigidamente pianificato, i giovani sono inevitabilmente condizionati ad accettare qualsiasi forma di pianificazione istituzionale. La cosiddetta istruzione soffoca gli orizzonti della loro immaginazione. Non è neppure da dire che vengano traditi, ma semplicemente sono defraudati, perché gli è stato insegnato a sostituire le aspettative alla speranza. Non avranno più sorprese, buone o cattive, dagli altri, perché gli è stato insegnato che cosa possono aspettarsi da qualunque persona che abbia ricevuto il loro stesso insegnamento. Da qualunque persona come da qualunque macchina.
Questo trasferimento di responsabilità dall'individuo all'istituzione, specie quando lo si è accettato come un obbligo, è una garanzia di regresso sociale. Così, coloro che si ribellano alla propria Alma Mater vi fanno spesso carriera come insegnanti anziché trovare il coraggio di contagiare altre persone con un insegnamento personale e di assumersi la responsabilità dei risultati. Ciò suggerisce una nuova possibile versione della storia di Edipo: Edipo l'insegnante, che si “fa” una madre per generare figli con lei. L'uomo che ha contratto il vizio di ricevere lezioni cerca la propria sicurezza nell'insegnamento coercitivo. La donna che vede nelle proprie conoscenze il risultato di un certo processo aspira a riprodurlo in altri.
Il mito della misurazione dei valori
I valori istituzionalizzati che la scuola inculca sono valori quantificati. La scuola inizia i giovani a un mondo dove tutto è misurabile, compresa la loro immaginazione e anzi l'uomo stesso. Ma lo sviluppo della personalità non è un'entità misurabile. Avviene in una dissidenza disciplinata, che non può essere misurata da nessun metro e da nessun corso di studi, né può essere paragonata ai risultati raggiunti da qualcun altro. In questo processo d'apprendimento si possono emulare gli altri solo nello sforzo immaginativo, seguendone le orme anziché scimmiottandone i passi. L'apprendimento che io apprezzo è una ricreazione incommensurabile.
La scuola pretende di frantumare l'apprendimento in “materie”, di immettere nel cervello dell'allievo un programma fatto di questi blocchi prefabbricati e di misurare il risultato su una bilancia internazionale. Coloro che accettano le unità di misura altrui per valutare lo sviluppo della personalità finiscono presto per applicare a se stessi il medesimo metro. Non c'è più bisogno di metterli al loro posto, perché sono loro stessi a inserirsi nel buco che gli è stato assegnato, a incunearsi nella nicchia che hanno imparato a cercare e, nel corso di questa operazione, a mettere al loro posto i propri simili fin quando tutto, cose e persone, non combaci. Chi ha imparato dalla scuola a misurare si lascia sfuggire di mano le esperienze non misurabili; ciò che non può essere misurato diventa per lui secondario o minaccioso. Per questo, non occorre privarlo della sua creatività; l'istruzione gli ha già fatto disimparare a “fare” ciò di cui sarebbe capace o a “essere” se stesso e lo ha portato a dare valore soltanto a quel che è stato, o potrebbe essere, fatto.
Una volta che gli sia stata ben inculcata l'idea che i valori possono essere prodotti e misurati, egli tende ad accettare qualunque sistema di classificazione. C'è un metro per misurare lo sviluppo delle nazioni, un altro per l'intelligenza degli infanti; persino il cammino verso la pace è calcolabile, in base al “conteggio dei cadaveri”. In un mondo scolarizzato la strada della felicità è lastricata di indici di consumo.
Il mito dei valori confezionati
La scuola vende un corso di studi: vale a dire, un pacco di merci simili per struttura e metodo di fabbricazione a qualunque altra mercanzia. La produzione di questi corsi nasce nella maggior parte delle scuole da una ricerca cosiddetta scientifica, partendo dalla quale i tecnici dell'istruzione prevedono, nei limiti fissati dai bilanci e dai tabù, la futura richiesta di utensili umani per la catena di montaggio.
L'insegnante-distributore porge il prodotto finito all'allievo-consumatore, le cui reazioni vengono attentamente studiate e schedate perché forniranno i dati necessari all'elaborazione del prossimo modello, che potrà essere “senza voti”, “scelto dallo studente”, “basato sull'insegnamento di gruppo”, “fornito di sussidi visivi” o “centrato sui problemi”. Il risultato di questo processo produttivo assomiglia a tutti gli altri prodotti moderni. È un involto di significati pianificati, un pacco di valori, una merce che per il suo “richiamo ben calcolato” è vendibile a un numero di persone abbastanza alto per giustificare i costi di produzione. Si insegna agli allievi-consumatori a conformare i propri desideri ai valori suscettibili di essere messi sul mercato. In tal modo si ottiene che si sentano colpevoli se non si comportano secondo le predizioni delle indagini di mercato procurandosi i voti e i diplomi che permetteranno loro d'accedere a quella categoria professionale cui sono stati indotti ad aspirare.
Gli educatori possono giustificare corsi di studi più costosi in base alla loro constatazione che le difficoltà d'apprendimento crescono proporzionalmente ai costi del corso seguito. È un'applicazione della legge di Parkinson, secondo cui la fatica aumenta parallelamente alle risorse disponibili per svolgerla. Questa legge trova conferma a tutti i livelli scolastici: per esempio, nelle scuole francesi la difficoltà di insegnare a leggere è diventata un grosso problema solo da quando si sono cominciate a spendere pro capite somme prossime ai livelli americani del 1950, cioè dell'anno in cui le difficoltà di lettura divennero un grosso problema nelle scuole degli Stati Uniti. In effetti accade spesso che gli studenti mentalmente sani raddoppino la loro resistenza all'insegnamento quando si accorgono di essere sempre più totalmente manipolati. Questa resistenza non dipende dai metodi autoritari della scuola pubblica o da quelli suadenti di certe scuole libere, ma dalla concezione fondamentale che è comune a tutte le scuole: l'idea che sia il giudizio di una persona a stabilire ciò che un'altra persona deve imparare e quando.
Il mito del progresso autoperpetuantesi
Anche quando è accompagnato da una diminuzione dei profitti in termini d'apprendimento, l'aumento pro capite dei costi dell'istruzione accresce, paradossalmente, il valore dell'allievo, sia ai suoi stessi occhi sia sul mercato. A qualunque costo, o quasi, la scuola lo spinge al livello del consumo scolastico competitivo e di qui a una marcia verso livelli sempre più alti. Le spese per indurre lo studente a rimanere nella scuola aumentano vertiginosamente man mano che egli s'arrampica sulla piramide. Ai livelli superiori assumono la forma di nuovi campi di calcio o di cappelle o di programmi chiamati “istruzione internazionale”.
La scuola insegna, se non altro, il valore dell'escalation, del modo americano di fare le cose. La guerra nel Vietnam corrisponde alla logica del momento. Il suo successo è stato calcolato in base al numero delle persone efficacemente toccate da proiettili a buon mercato distribuiti a un costo immenso, e questo calcolo brutale viene spudoratamente chiamato “conteggio dei cadaveri”. Come gli affari sono affari, cioè un'incessante accumulazione di denaro, così la guerra è massacro, cioè un'incessante accumulazione di cadaveri. Analogamente l'istruzione è scolarizzazione, e questo processo senza fine viene calcolato in ore-allievo. Sono tutti processi irreversibili, che trovano in se stessi la loro unica giustificazione. Secondo l'economia, il paese diventa sempre più ricco. Secondo il conto dei morti, la nazione continua all'infinito a vincere la sua guerra. E secondo la scuola, la popolazione diventa sempre più istruita [...]
I riformatori dell'insegnamento promettono a ogni nuova generazione quanto c'è di meglio e di più aggiornato e il pubblico è condizionato dalla scuola a chiedere ciò che essi offrono. L'evasore dall'obbligo scolastico, che si sente continuamente ricordare ciò che ha perso, come il laureato, che è indotto a sentirsi inferiore alla più recente leva di studenti, sanno esattamente qual è la loro posizione nel rituale delle crescenti illusioni e continuano ad appoggiare una società che ha battezzato eufemisticamente la crepa sempre più larga delle speranze frustrate “rivoluzione delle crescenti aspettative”.
Ma una crescita concepita come consumo illimitato come eterno progresso - non potrà mai portare alla maturità. L’impegno a un incontrollato aumento quantitativo invalida la possibilità di uno sviluppo organico.
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