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Il rider (in)felice e il nuovo catechismo globale



Mentre Enrico Letta dichiara che «è finito il tempo in cui si andava a scuola, all'università e poi si lavorava» perché «adesso per tutta la nostra vita dobbiamo adattarci, cambiare ed essere pronti», noi riportiamo alcune riflessioni pubblicate su Facebook da Maurizio Cocco, docente di Storia e Filosofia (che ringraziamo). Non sono state scritte in seguito alle dichiarazioni di Letta, ma ci sembrano la migliore delle repliche. Visto anche che in quel salotto - e in tutti gli altri - la replica non è pratica troppo frequentata, specie rispetto ad affermazioni che, se discusse, rischierebbero di non passare come dati di fatto o verità incontestabili. [G.P.]



Ieri sul Corriere è comparsa un'intervista a un "giovane" orefice che si è "reinventato" come rider. Le parole chiave dell'articolo (non la prima, né l'ultima, velina di regime sul tema), se non imboccate all'intervistato, contengono i riferimenti culturali attraverso cui si esprime lo spirito dei tempi.


C'è l'idea del business cycle di Schumpeter, per cui nel momento di crisi bisogna soltanto passare la nottata; le idee economiche del lato dell'offerta, per cui se il lavoro scarseggia si può risolvere soltanto attraverso un "empowerment" dei singoli lavoratori; la fiducia evoluzionista nel progresso, in fede alla quale tutto ciò che è nuovo è positivo, e tutto ciò che sparisce lo fa per natura; la convinzione che la propria condizione sia legata interamente alle proprie responsabilità. Il giardino dell'Eden è alla portata di chiunque si rimbocchi le maniche e il mercato farà in modo di allocare nella più razionale delle posizioni possibili anche le risorse umane.


Va da sé che questa storia, come le altre simili, sono parabole di una catechesi politico-sociale. Ci raccontano di persone felici e coraggiose e, anche quando non sono false, non si preoccupano dei numeri. Certo, uno che da rider diventa Warren Buffett esisterà pure, ma in mezzo a un oceano di sconfitti e diseredati. In ogni caso non escludo che le idee sopra citate possano trovare l'approvazione di una vasta quantità di persone, convinte magari di poter essere loro i prossimi Warren Buffett, o comunque ostili nei confronti di chi non vorrebbe diventarlo, ma bisogna chiarirsi su quale stile di vita ci viene proposto.


Si tratta di un mondo nel quale il lavoro non è soltanto la componente principale della vita, cosa alla quale ci siamo ampiamente abituati, ma l'unica. Noi accettiamo infatti come moralmente buono il discorso per cui si debba anteporre la carriera alla famiglia, ma questa è una scelta che dovrebbe essere libera, non un fatto di natura. Lo smart working sembra d'altra parte prefigurare una dimensione quotidiana in cui il lavoro è in casa e il lavoro diventa casa, un po' perché gli orari si fanno "flessibili", cioè pervasivi, un po' perché disabitua alle relazioni con il mondo esterno. Non è perciò questione di come si lavora, ma di come si vive. La mattina un lavoro, la sera un altro, la notte per dormire e il fine settimana - quando non occupato da un terzo lavoro - per vivere: questo è il modello che ci viene proposto e che finiamo per accettare con il sorriso.


Ma perché dovremmo lavorare di più? Perché c'è la crisi. Peccato che alla fine della crisi, la situazione resti immutata. In un mondo che è molto più ricco di ieri, che potrebbe liberare ore di lavoro e trasformarle in altre energie, perché dovremmo sentirci in colpa ogni volta che lavoriamo un po' meno degli altri?


Di fronte alla crisi degli anni Settanta, Milton Friedman ha insegnato al mondo che per evitare la stagnazione era necessario liberare quelle energie, ma per un'altra ragione: perché le troppe tutele ci avevano reso meno produttivi, efficienti e poco avvezzi al rischio connaturato al nostro vivere. Quello di Friedman non era un pensiero tecnico, ma filosofico, un modo di vivere. Quanto poco fosse tecnico è chiarito dal fatto che il PIL mondiale è esploso proprio negli anni in cui si delineava un massiccio ricorso allo Stato sociale, alle tutele sul lavoro, al nazionalismo economico. Il modo di vivere che nasce da Friedman e altri pensatori si è realizzato e pian piano si è allontanata l'utopia keynesiana: un mondo che, proprio perché è più ricco, permette alle persone di lavorare sempre meno.


Dato che queste sono le idee dominanti, dato che i media con un'unica voce mi spacciano tutto questo per bello e per edificante, io dovrei temere le fake news? E dato che questa agenda è alla luce del sole io dovrei preoccuparmi se girano teorie cospirazioniste? E infine, visto che questa agenda è il fulcro della nostra classe dirigente, io dovrei schierarmi in qualche fronte anti-fascista e arginare non so quale marea?


Maurizio Cocco - 22 gennaio 2021

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