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Il fine non giustifica proprio nulla



Anche Matteo Bassetti ha tagliato corto: interrogato sul senso sanitario del lasciapassare ha in pratica ammesso che serve per costringere gli esitanti a vaccinarsi, e questo basta dato che - ha precisato - «alla fine io sono machiavellico, da medico: il fine giustifica i mezzi» (vedere per credere: min. 51).


Diamo per scontato il sottotesto, che è sempre uguale: il fine dovrebbe essere la salute pubblica, ma in realtà è il vaccino stesso (che non arresta il contagio però è l'unica salvezza per ragioni misteriose che lasciamo ai teologi). Stiamo invece a questa frase, buttata lì come le verità che, quando meno te l'aspetti, brillano nella beata inconsapevolezza di chi le dice. Di certo il televirologo non ha letto Machiavelli, che quella formula non l'ha mai usata né probabilmente pensata. Però è interessante che Il Principe nell'edizione Bassetti sia quello della vulgata che fu tanto cara ai dittatori del Novecento.


Si sa che Hitler amava considerarsi allievo ideale del fiorentino perché in lui vedeva il teorico del dominio senza frivoli scrupoli moralistici, e non diverse dovevano essere le ragioni per cui Stalin lo ammirava a sua volta, tanto da consumarne le pagine a forza di sottolineature e note, con buona pace di Kamenev. Mussolini, poi, di quel machiavellismo - fatalmente miscelato a un certo lebonismo - diede saggio in un Preludio al Machiavelli in cui, fra l'altro, si legge: «L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire».

Ora, se la sovranità popolare sia un'utopia o meno è un quesito annoso (costò non poco già a Tiberio Gracco) a cui però la nostra Costituzione dà una risposta netta. Eppure, più che nella carta fondamentale della Repubblica, è nelle parole mussoliniane che sembra riassumersi quanto politici, tecnici o soloni da salotto tentano di dirci da oltre un anno e mezzo. Il disprezzo della plebe e il primato dei messia che la domano, fino alle prospettive di governi militari ventilate su quotidiani prestigiosi, e ora alla tessera obbligatoria per intere categorie (facoltativa per gli altri, salvo non poter vivere senza): tutto appartiene alla stessa tradizione. Ormai ci si vanta perfino di quell'«utilitarismo spregiudicato e spietato» (così la Treccani) per il quale un governante pur di raggiungere il fine che si è proposto può servirsi di qualsiasi espediente. Capita addirittura che un medico se ne fregi come fosse un requisito deontologico.


Forse Bassetti non si è reso conto della mostruosità che gli è uscita di bocca (almeno si spera, perché non sarebbe rassicurante farsi curare da un medico che ha simili convinzioni), ma alla fine ha detto una verità ormai confessabile. Il discorso sul mezzo - cioè il discorso democratico - è finito: siamo in una di quelle «ore solenni» in cui prevale la ragion di Stato, che è la rottura palese dello Stato di diritto. Il mare nebbioso in cui l'illecito e il lecito si confondono. Per giunta in un contesto in cui l'interesse nazionale è una bestemmia oscurantista e lo stato d'eccezione globale è new normal. Anzi, neanche tanto nuovo: son trent'anni, per dirne una, che si parla di democrazia come fine che giustifica le bombe, di sicurezza come fine che giustifica segreti, censure e bufale, e dell'euro come fine che giustifica i bambini morti in Grecia.


Inutile allora discutere se i mezzi siano necessari o i fini assolutamente buoni: lo stato d'eccezione è fatto apposta per non farsi domande. Ci si affida ai sacerdoti di una liturgia tecnocratica e ai loro referenti politici, che finalmente decidono tutto per tutti, nel plauso di quanti non aspettano altro che delegare financo la loro consistenza corporea al nuovo clero. Nella supposizione che il fine deciso unilateralmente dai nuovi prìncipi sia il bene supremo per tutti, anche se la storia (un tempo magistra vitae) smentisce l'assunto praticamente ad ogni capoverso.


Ma, visto che dobbiamo muoverci fra proposizioni teologiche e formule devozionali, Bassetti non s'offenderà se daremo ascolto a Tommaso d'Aquino, il quale contrariamente a lui pensava che un'azione ingiusta non smettesse di essere tale perché mossa da buona intenzione. Anche perché - dogma per dogma - meglio continuare a pensare che i fini riposino nella mente di Dio, certo non paragonabile a quella di Bassetti (nel senso che le è superiore: meglio precisare, perché il machiavellico potrebbe essersi convinto del contrario). E al fine che giustifica i mezzi continuiamo a preferire l'albero che si riconosce dai frutti.


Tanto più che in nome di questo bizzarro teleologismo vaccinale abbiamo finora ascoltato le proposte più strampalate: che i non vaccinati paghino in proprio le cure o che i medici di diverso avviso debbano essere radiati e zittiti. Ne sarà contento il Machiavelli di questa persistente vulgata. Meno Ippocrate, nel cui nome si giura su una serie di principi: l'eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, il rispetto dei colleghi anche in caso di contrasto di opinioni e la subordinazione delle norme giuridiche ai fini della professione (che sono morali, non politici, con buona pace dei principi di ieri e di oggi).


Allo sprezzante motto con cui i Traci mortificavano Fillide sedotta e abbandonata - exitus acta probat - preferiamo insomma la risposta dell'infelice: "che non abbia successo chi pensa che dal risultato si giudichino le azioni". E se Ovidio è troppo antico, al nostro scienziato consigliamo almeno qualche pagina di Simone Weil: scoprirà che le conseguenze implicate dal gioco dei mezzi son cosa talora assai più rilevante dell'ipotesi di un fine. Casomai ogni tanto volessimo discutere seriamente di qualcosa.


G. P.

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