Basta farsi paladini dell'anti-radical fashion per essere liberi? Mentre il discorso dominante produce facili maestri per ciascun target di consumo mediatico - a destra, a sinistra e altrove - faremmo bene a riflettere sul recente caso delle dimissioni di Bari Weiss dal New York Times.
Chi volesse, può leggere qui l'infuocata lettera con cui la giovane opinionista di destra si è congedata dalla roccaforte liberal, dopo qualche anno di difficile permanenza. Un intenso j'accuse verso il conformismo della grande stampa, la sudditanza psicologica al politically correct, la censura dei non allineati, gli isterismi della sinistra americana. Non stupisce che, con queste credenziali, Weiss si candidi ad essere acclamata da molti anti-globalisti europei come martire della dilagante dittatura culturale. Salvo che, scorrendo la sua lettera, si sarebbe tentati di accostarla alla Boldrini più che alla Fallaci. Quantomeno per la confusione fra diritto di critica e crimine d'odio, per quell'invocare fra le righe un sorvegliare e punire che stona abbastanza, se ci si rivendica come voce libera di un discorso senza padroni. Ciò che emerge è la prossimità - più che la distanza - fra la profetessa del politicamente scorretto e i suoi avversari. In termini di matrici culturali, automatismi logici, cliché discorsivi. Quasi a voler malignare che la questione non sia la Cancel Culture in quanto espressione di un fanatismo pericoloso, ma più prosaicamente chi debba e possa servirsene.
Su questo punto batte John K. Wilson in un articolo piuttosto netto fin dal titolo (Bari Weiss and the Coward Culture) comparso su Academe Blog (qui la versione integrale):
L'ex reporter del New York Times Judith Miller (leggendaria per aver aiutato l'amministrazione Bush a diffondere la falsa notizia delle armi di distruzione di massa in Iraq), parlando di Weiss su Fox News ha (erroneamente) riferito: «Di fatto Weiss è stata sollevata dal suo posto di editorialista e non le è stato subito offerto un altro incarico: il sottinteso che non fosse più gradita era evidente». Si capisce che abbia potuto incorrere in questo grossolano errore e pensare, sbagliando, che la Weiss sia stata privata del proprio incarico: in fondo, la lamentosa lettera di dimissioni e le mielose espressioni di solidarietà su Internet per il sopruso subìto non avrebbero avuto senso se Weiss avesse semplicemente deciso di lasciare il suo lavoro. Solo che lei, in effetti, ha semplicemente lasciato il suo lavoro. Non è stata «sollevata dal suo posto di editorialista». Perché lo ha lasciato? Nella sua lettera lascia intuire di essere stata costretta ad andarsene, e minaccia azioni legali circa non meglio specificati casi di «discriminazione illegale, ambiente di lavoro ostile, dimissioni costruttive». Ma la parte essenziale è il paragrafo in cui dice: «Le mie incursioni nelle "idee sbagliate" mi hanno resa oggetto di bullismo da parte di colleghi che non condividono le mie opinioni. Sono stata definita nazista e razzista. Ho dovuto imparare a ignorare commenti sul fatto che "scrivevo sempre di ebrei". Diversi colleghi, percepiti come vicini a me, sono stati isolati a loro volta. Il mio lavoro e la mia persona vengono apertamente sminuiti sui canali Slack [software di collaborazione aziendale, usato per comunicare istantaneamente con i membri di un team, N.d.T.] su cui ovviamente influiscono i redattori della testata. Alcuni colleghi insistono che io debba essere cacciata se l'azienda vuol essere realmente "inclusiva". Altri pubblicano emoji con l'ascia accanto al mio nome. E poi altri che lavorano al New York Times mi additano pubblicamente su Twitter come bigotta e bugiarda, senza paura che alla loro persecuzione si risponda con misure appropriate, il che del resto non avviene mai». Quali sarebbero le «misure appropriate» che Weiss richiede? I suoi critici dovrebbero essere licenziati su due piedi o solamente censurati dai loro capi al Times? […] Una delle principali accuse contenute nella lettera di Weiss è che i suoi colleghi l'avrebbero pubblicamente tacciata di essere una bugiarda, senza che i responsabili li abbiano censurati. Verosimilmente ci si riferisce a un episodio occorso a giugno, durante uno scambio di idee interno al giornale. Su Twitter la giornalista aveva scritto di una «guerra civile» generazionale al New York Timesdovuta al fatto che i giovani redattori della Nuova Guardia crederebbero nel safetyism [neologismo grossomodo corrispondente al nostro "securitarismo", N.d.T.], dogma per il quale «sentirsi emotivamente e psicologicamente sicuri è più importante di quelli che un tempo erano ritenuti valori liberali fondamentali, fra cui la libertà di parola». Altri membri dello staff obiettavano su Twitter che il quadro tratteggiato da Weiss fosse impreciso, ed eccola lamentarsi di essere stata definita bugiarda. Paradossalmente, l'unica a domandare sicurezza per sé (dove la sua sicurezza emotiva dall'essere criticata è più importante del diritto di parola del resto dello staff) è proprio la Weiss. E quando qualcuno, come lei, esige il silenzio altrui, con la Cancel Culture si fonde anche la Coward Culture [lett. "cultura della codardia", N.d.T.]: la paura di essere criticati si trasforma nella pretesa di non essere criticati. Weiss insomma ha bisogno - secondo lei - di uno "spazio sicuro" (vale a dire il suo intero ambiente di lavoro, compresi tutti i commenti pubblici su ciò che fa e le opinioni dei colleghi), perché in caso contrario viene "bullizzata". Il "bullismo" in effetti è un motivo ricorrente della Coward Culture, e Weiss lo usa a piene mani […] A Vanity Fair ha dichiarato: «Odio i bulli. Quand'ero al College ho protestato contro i maestri di bullismo - quelli che usavano le loro classi per fare propaganda riducendo al silenzio le opinioni opposte - e ora protesto contro gli studenti di bullismo…». Definendo «bulli» i suoi critici, insomma, Weiss si autorizza a pretenderne la censura, perché l'onnipotente libertà di parola che finge di amare, davanti ai «bulli», ovviamente s'arresta. "Bullizzare" è termine che riporta a dinamiche infantili, e certo non pensiamo la libertà di parola possa applicarsi al bullismo […] ma, come ho già obiettato sul Journal of Academic Freedom, applicare questo concetto ai discorsi fra adulti è rischioso. Ancor più rischioso se lo si usa discutendo di editorialisti del New York Times. Come molti crociati contro il bullismo, poi, Weiss è a sua volta una prepotente. Quando, nel 2018, la giornalista freelance Erin Biba usò su Twitter il termine "f...", Weiss, provando evidentemente a farla silurare, scrisse sul profilo Twitter di diverse riviste che avevano pubblicato testi di Biba: «Che tipo di etichetta esigono sui social testate come @BBCScienceNews, @Newsweek, @sciam dai loro freelancers?». Nessuno incarna la Cancel Culture di destra meglio di chi, come la Weiss, pensa che un freelancer debba essere punito per avere violato inesistenti norme di "etichetta" sulle proprie pagine personali. Del resto, Weiss ha iniziato la propria carriera di opinionista di destra nel 2006, quando era studentessa alla Columbia, richiedendo indagini e sanzioni contro i professori che criticavano il governo israeliano: professori di cui Weiss denunciava il razzismo. Come ha osservato Glenn Greenwald, l'intera carriera di Weiss «è stata letteralmente costruita su brutte campagne atte ad attaccare, stigmatizzare e punire i professori arabi critici verso Israele». E sebbene lei si sia arrabbiata quando la Columbia rifiutò di sanzionare i docenti che non erano di suo gradimento, il suo impegno per la censura produsse comunque effetti pesanti: per placare i critici pro-Israele come lei, l'Università emanò riguardo alla libertà d'espressione uno dei regolamenti più repressivi d'America, che è tuttora in vigore e che consente reclami e sanzioni formali verso tutti i docenti i quali «sostengano una qualunque causa politica e sociale» in una classe. Proprio Weiss fornisce la prova migliore dell'ipocrisia di chi sbraita contro la Cancel Culture: un suo profilo pubblicato su Vanity Fair ricorda come la giornalista sia stata censurata dal Wall Street Journal (testata di destra) quando ci lavorava. «Durante la campagna elettorale - si legge - lei provò a far scattare un allarme su Steve Bannon ma le venne detto che non era la persona adatta. Voleva scrivere sull'ipocrisia di Melania Trump, coi suoi problemi di cyberbullismo, ma le venne vietato». In un podcast di Reason, Weiss dichiara: «All'improvviso mi è stato detto, sai, che non ero adeguata a scrivere di questi argomenti o che ero troppo anti-Trump». Storia davvero curiosa: Weiss afferma di essere stata censurata dal Wall Street Journal perché aveva opinioni troppo liberali, eppure nessuno si è indignato per questa Cancel Culture di destra. Di contro, dal New York Times Weiss non è mai stata censurata: semplicemente si è lamentata perché i suoi colleghi hanno osato criticarla, e tuttavia il giornale è diventato simbolo della Cancel Culture nel dibattito attuale. In realtà, Weiss ha capito benissimo una cosa: si può guadagnare molta più visibilità e celebrità evocando una versione pretestuosa della Cancel Culture di sinistra che non la reale Cancel Culture pro-Trump oggi prevalente. […] Ci sono vittime vere della Cancel Culture, a destra come a sinistra, e veri sono i pericoli che il nostro dibattito corre quando le persone hanno paura di parlare liberamente, ma lasciare il proprio lavoro per poi giocare la carta del vittimismo non è un caso di Cancel Culture. Ciò che ha fatto la Weiss è piuttosto un esempio di Coward Culture, e dobbiamo rigettare la celebrazione della sua codardia come strumento per chiedere la censura dei suoi critici.[trad. G.P. per gentile concessione dell'autore]
Fin qui Wilson. Sulla stessa linea anche Alex Stephard, che scrive: «Weiss è convinta di essere stata presa di mira per le sue convinzioni "centriste", ma la gran parte delle critiche che ha ricevuto riguardano specifici aspetti del suo lavoro: le è stato contestato di avere un'ammirazione acritica per youtubers di destra, di aver citato un account Twitter falso come prova della censura nei campus universitari, e in generale di tenere sull'argomento una posizione ipocrita».
In effetti, dopo l'incidente del falso account (piuttosto sensibile per chi ricorda le crociate non troppo liberali della Weiss studentessa), la giornalista si è difesa evocando un social media mob pronto a macchiare chiunque osi allontanarsi dall'ortodossia della sinistra woke, quando sarebbe stato forse più comodo verificare le proprie fonti prima di imbastire campagne su presunte guerre stellari studentesche. Stessa cosa per la gaffe sulla pattinatrice Mirai Nagasu, californiana di famiglia asiatica, da lei definita "immigrata". Un grossolano errore (fatto passare dall'autrice per "licenza poetica") che certo s'amplifica se a commetterlo è l'editorialista di uno dei più importanti giornali occidentali: tanto più che - rimestando volentieri nel calderone della polemica - dopo aver cancellato il post incriminato, Weiss ha ovviamente lamentato di aver dovuto fare marcia indietro perché sommersa dagli haters (su questo il Washington Post ha dato valutazioni più moderate ma, eliminato il post, non ci è possibile verificarle).
A prescindere dalle opinioni della Weiss (alcune meritevoli di approfondimento: sul complesso mondo dell'Intellectual Dark Web, da lei portato a notorietà mediatica, ad esempio, contiamo di tornare in un prossimo articolo o video), si fa piuttosto forte l'impressione che - sempre citando Stephard - la giornalista abbia «trasformato qualunque obiezione al suo lavoro in una prova che i suoi critici sono illiberali e cercano di zittirla». Una dinamica ben nota anche dalle nostre parti: poco importa che in Europa lo schema prevalga fra i rosé di sinistra, che da anni usano il politically correct allo stesso modo in cui Weiss sembra usare l'anti-politically correct. Come clava censoria, in nome della guerra santa all'odio: cambiano i fattori ma il meccanismo resta intatto (e del resto, anche qui, il primo a sdoganare il pericolo dell'odio in politica è stato Berlusconi, anche per poter più comodamente derubricare i suoi critici fra i pericolosi istigatori).
Dell'attivismo studentesco della giornalista per il siluramento di chi osasse criticare Israele (ciò che lei chiama fight antisemitism), ha parlato particolarmente Glenn Greenwald sulle colonne del The Intercept. Anche per notare come, dalla lotta per la censura agli strali contro la censura, la strategia sia rimasta appunto identica: «Esattamente come dieci anni fa, quand'era attivista pro-Israele alla Columbia - scrive Greenwald - e anche dopo, da vari trespoli mediatici neocon, la sua formula è semplice quanto prevedibile: prendere qualunque lamentela (prevalentemente da destra) sulle Università oppure sugli Arabi o sui critici di Israele, e canalizzarla in una colonna che si pretende provocatoria perché attacca movimenti minoritari o posizioni marginali che generalmente non hanno spazio fra gli articoli d'opinione del New York Times». Come creare polemiche o guerre di civiltà, magari anche dal nulla, insomma: altra tecnica ben nota al sistema spettacolare.
Del resto (sarà banale dirlo) è difficile pensare a una coraggiosa intellettuale dissidente che venga promossa e celebrata nei circuiti del più tradizionale mainstream, come indubitabilmente accade a Bari Weiss. Difficile che il New York Times volesse uscire dal frame dominante quando, all'indomani della vittoria di Trump, si scoprì abissalmente distante dalla percezione dell'americano medio (cioè ininfluente, come direbbe la nostra Botteri). E pensò di reclutare la giovane conservatrice e provocatrice, polemista brillante e fuori dagli schemi (ma non più del necessario) per rappresentare - si disse - punti di vista diversi.
Il maquillage pluralistico è cosa assai collaudata. E, sempre a detta di Greenwald, poche cose fanno più ridere che vedere la pagina di opinioni del New York Times, quintessenza dell'omologazione, «tessere le lodi del pluralismo». Passando in rassegna la lunga lista di editorialisti del giornale - prosegue impietoso - ben si vede che «ciascuno di essi risponde perfettamente alla ristretta gamma di posizioni (da quelle di centro-destra a quelle di centro-sinistra) prevalente nei circoli d'opinione d'élite», e che «nessuno è accostabile o favorevole al crescente populism di destra o di sinistra: si crogiolano tutti nella vaga, sicura via di mezzo approvata da Washington, tutti perfettamente in regola con la neonata alleanza fra neoliberali e neoconservatori».
Il mainstream che si reinventa come anti-mainstream è doppiamente insidioso. Più capace di fare del proprio range l'unico campo pensabile per il discorso legittimo. Di sbattere fuori dal presentabile il mare magnum di voci che non può contenere. E ridefinirle con le etichette semplicistiche cui è avvezzo. Sinistra woke. O - chissà - complottismo, populismo, destra estrema o estrema sinistra: tutte realtà esistenti e operanti, per carità, ma più efficaci in formato etichetta. Perché un'etichetta, si sa, la si trova sempre, magari per qualche facile polemica, specie se il mercato lo richiede, oppure quando - per caso - vien fuori un account falso o un commento idiota, e finisce su un editorialone coi fiocchi: l'emergenza illiberale è servita. Giusto il tempo di censurare (gli altri) in nome della libertà. [G. P].